Francesco “disturbava” perché amato dai poveri

0
6
CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 90

Perché sei venuto a disturbarci?”. La Curia romana e una parte cospicua dell’alta gerarchia della Chiesa cattolica ha, in fondo al cuore e a fior di labbra, incessantemente rivolto a Francesco questa domanda. Per non parlare dei potenti della Terra, convenuti al suo funerale più per essere sicuri che non tornasse, che non per onorarlo

“Perché sei venuto a disturbarci?”: è la prima domanda che il Grande Inquisitore rivolge a Cristo tornato nel mondo, nel finale travolgente dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Si racconta che uno dei cardinali di Curia più esposti nelle ultime onoranze a Francesco fosse solito esclamare, passando con i suoi ospiti sotto un ritratto di Giovanni Paolo II: “Questo sì che era un papa!”. Francesco no, non corrispondeva a quella idea di papa. Perché con lui si è definitivamente compiuta l’autospoliazione del papato iniziata con Giovanni XXIII e quindi proseguita, tra accelerazioni (quella effimera di papa Luciani, per esempio) e arresti (appunto quello del papa polacco): con Francesco sparisce il sovrano pontefice, torna il vescovo di Roma, il pastore. Ciò che Francesco rigetta è il potere.

È il ‘peccato’ che il cardinale Grande Inquisitore di Dostoevskij rimprovera a Cristo, non aver voluto il potere temporale che Satana pure gli aveva offerto, nelle tentazioni: “Tu avevi rifiutato con sdegno quell’ultimo dono ch’egli ti offriva, mostrandoti tutti i regni della terra: noi accettammo da lui Roma e la spada di Cesare, e ci proclamammo re della terra, gli unici re”.

Ecco, con Francesco si dimostra che quella lunghissima storia può finire, e che non per questo finisce la Chiesa. L’amore travolgente per questo papa, l’amore degli ultimi, dei diversi, dei poveri è quello che fa più paura a coloro che sono legati a una Chiesa la cui sopravvivenza sia fondata sul potere e sul controllo, e non sull’amore e sulla libertà. “Noi daremo agli uomini la tranquilla, umile felicità degli esseri deboli… e a noi si stringeranno, nella paura, come i pulcini alla chioccia”, dice il cardinale inquisitore. Con Francesco, no: “Se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicare?”. Lo disse in aereo, ai giornalisti, nel 2013, e alla Curia parve (come infinite altre volte) una voce dal sen fuggita, inopportuna. Invece l’ha poi ripetuto infinite volte, per esempio nella meditazione mattutina del 17 marzo 2014: “Chi sono io per giudicare gli altri? È la domanda da fare a se stessi per dare spazio alla misericordia, l’atteggiamento giusto per costruire la pace tra le persone, le nazioni e dentro di noi”. Il papa parlava la lingua del Vangelo: quella del Cristo, non quella del Grande Inquisitore.

Lo faceva parlando della morale privata e di quella pubblica, con i piccoli e con i potenti. La sua politica, la sua unica politica, era il Vangelo. Consapevole di essere un agnello in mezzo ai lupi, Francesco era semplice come le colombe, ma anche prudente come i serpenti (cfr. Matteo 10, 16): sapeva che esisteva la Segreteria di Stato, e usava ogni canale possibile per influenzare il potere. Ma era nel mondo senza essere ‘del’ mondo, ed è qui la sua profonda diversità dalla Curia, che da secoli del mondo è un centro, e un centro di potere.

Jorge Mario Bergoglio non era un ingenuo: da gesuita, e da arcivescovo di Buenos Aires, sapeva perfettamente cosa è il potere, e come averci a che fare. Ma Francesco è stato diverso da Jorge: il cambio di nome (e che nome: quello del santo più remoto da ogni idea di potere, quello che più di ogni altro si è umiliato come Cristo) e l’assunzione al ministero petrino hanno cambiato profondamente chi lo ha assunto: Francesco è stato davvero un “dolce Cristo in terra” (così Caterina da Siena chiamava il pontefice).

Tomaso Montanari