Luglio, caldo torrido, l’aria che scotta e la politica che – come al solito – scambia la comunicazione per una vetrina di autocompiacimento. Il settimanale Time pubblica in copertina una Giorgia Meloni in posa imperiale, sfondo nero, camicetta blu Fratelli d’Italia, sguardo austero e rivolto dritto verso l’obiettivo, perché si sa, attiva percezione di fiducia e sicurezza, e un titolo che suona epico: Where Giorgia Meloni is Leading Europe. Apriti cielo. O, meglio, apriti social: la destra italiana parte in delirio, sventola tricolori digitali e grida al trionfo planetario. Peccato che, a leggere l’articolo (quel testo misterioso che di solito accompagna le foto) di Massimo Calabresi, la narrazione cambia.
Eccome se cambia. Non è una celebrazione, è un’analisi. E anche piuttosto spigolosa. Calabresi racconta sì una leader influente, capace di incantare Bruxelles e rassicurare Washington, ma poi scende nel dettaglio: concentrazione del potere, scarsa tolleranza per il dissenso, attacchi alla stampa libera, una linea culturale che non fa mistero delle sue radici nostalgiche. Altro che standing ovation: è un cartellino giallo.
Ma il Paese della scrollata veloce con a capo Daniela Santanchè non ha tempo per leggere. L’importante è che sembri una vittoria. È bastata una copertina e una manciata di pixel ben messi per innescare l’orgasmo identitario. Il contenuto? Superfluo. Nella Repubblica dell’Immagine, le parole sono diventate un optional, la comprensione un ostacolo, il pensiero critico una specie in via di estinzione. Siamo al punto in cui il titolo diventa verità, la foto diventa narrazione, e il brand di un giornale internazionale viene strumentalizzato come un bollino di qualità sul pacco regalo della propaganda. Non serve nemmeno forzare i contenuti: è sufficiente lasciarli intatti, tanto nessuno li leggerà.
Ma non si tratta solo di superficialità. Qui c’è qualcosa di più profondo, di più allarmante: la complicità. Il bisogno collettivo di essere raccontati in un certo modo, anche quando quel racconto è falso. È un’abdicazione cognitiva, una scelta emotiva. Il cittadino postmoderno non vuole capire, vuole sentirsi confermato. Non vuole informarsi, vuole riconoscersi. Non vuole nemmeno vedere l’orrore che c’è fuori casa, perché tanto non lo riguarda, casomai lo disturba come una pubblicità petulante e aggressiva. Lo sappiamo: il cervello umano cerca scorciatoie. Funziona con il pilota automatico.
Appena vede un segnale che sembra positivo, chiude il rubinetto del dubbio. Kahneman lo chiama Sistema 1: veloce, intuitivo, superficiale. Il Sistema 2, quello che ragiona, analizza, pesa, ormai lo accendiamo solo per scegliere tra due serie su Netflix.
Il risultato è un Paese che si beve tutto, basta che sia servito con la stimolazione percettiva giusta. Un popolo che applaude mentre lo ammoniscono, convinto di essere osannato. Una classe dirigente che ha capito che la verità è un dettaglio e l’immagine – purché condivisibile – è tutto ciò che conta.
E allora eccolo, il capolavoro: una critica alle tendenze autoritarie del governo italiano trasformata in un poster celebrativo. La stampa estera che si interroga con tono preoccupato, trattata come uno sponsor elettorale. La consapevolezza rovesciata in propaganda, e il fraintendimento eretto a strategia nazionale.
Ma non facciamoci illusioni: questo non è un incidente. È la regola. È il modello di comunicazione che ci siamo cuciti addosso. Velocità, sintesi, emotività. L’ignoranza non è più un problema, è un vantaggio. La complessità non è una sfida, è un nemico. E leggere è un atto radicale. Non è colpa di una testata, né di un algoritmo. È un intero ecosistema informativo che ha fatto pace con l’equivoco. E noi, cittadini consenzienti, siamo i primi azionisti della nostra disinformazione.
Simona Ruffino


