Volenterosi chi? «Sono tutti amici miei». L’Europa alla mercé di Trump

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Riuniti «i leader tutti amici miei» attorno al tavolo del vertice, questo lunedì Donald Trump ha cominciato ad annunciarli a modo tutto suo: ha lasciato il vertice dell’Ue, la presidente di Commissione europea Ursula von der Leyen, in fondo a tutti. Ha cominciato da Mark Rutte, che ha fatto in modo che «l’Europa la paghi cara» al vertice dell’Aia, presentandolo come «un grande leader europeo».

Tra i leader europei, ha iniziato da Emmanuel Macron, dal quale del resto aveva cominciato già nella presidenza: prima ancora del suo insediamento era a Parigi per incontrarlo. Lo ha ricordato questo lunedì sera, con plausibile fastidio di Giorgia Meloni, lasciata per seconda.

Il cancelliere tedesco è stato annoverato dopo di loro, con note sulla «abbronzatura».

Insomma non c’è da stupirsi troppo che già questo lunedì pomeriggio fosse arrivato il suono di campanella da Bruxelles: «Convoco una videoconferenza per questo martedì alle tredici», ha annunciato António Costa, presidente del Consiglio europeo, immaginando di dover il giorno dopo ricomporre l’Unione, i capi di stato e di governo di tutti e 27 gli stati membri. Il che riporta se non altro un certo ordine formale, in questo nuovo disordine mondiale innescato da Trump ma assecondato dai sedicenti «partner transatlantici».
«Tutti amici miei»

Il caos mediatico che è deflagrato in Polonia per l’assenza a Washington di un leader da Varsavia – e che somiglia agli interrogativi passati sull’assenza di Giorgia Meloni in un’altra èra dei «volenterosi» – porta alla luce il disordine e l’arbitrio che (s)regolano il versante europeo.

Questo lunedì, mentre Trump – che in questi mesi ha riempito gli interni della Casa Bianca di strabordanti decorazioni d’oro – esponeva una enorme bandiera statunitense, davanti a quelle stesse telecamere sfilava l’arca degli europei: un po’ Ue, con la presenza di Ursula von der Leyen già reduce dal fallimento scozzese, ma pure Nato – con «Mark», come l’ha chiamato Trump in Alaska, cioè quello stesso Rutte che l’ha fatta «pagare cara» agli europei col 5 per cento all’Aia – e last but not least un po’ volenterosi. «Tutti amici miei», ha rivendicato Trump prima di incontrarli attorno al tavolo della Casa Bianca.

Volenterosi chi? Il presidente francese e il premier britannico, i primi a intestarsi il brand della «coalition of the willing» nonché i detentori dell’arma nucleare. Il cancelliere tedesco, per l’indiscussa rilevanza di Berlino negli equilibri europei e per il rilancio tentato da Friedrich Merz: ancor prima di insediarsi si coordinava con l’Eliseo, predisponeva l’indebitamento per il riarmo, e di recente ha negoziato con Trump il meccanismo per pagargli con soldi europei le armi Usa in Ucraina, oltre a intestarsi lui l’iniziativa della videochiamata europei-Kiev-Washington alla vigilia d’Alaska.

Qui le certezze si fermano, cominciano le variabili: c’è il presidente finlandese, presenza assidua di recente, c’è Giorgia Meloni inizialmente ondeggiante, non c’è il premier polacco e neppure il presidente. I criteri non sono – o perlomeno non solo – di rilevanza, di coinvolgimento o geografici: perché l’Estonia, che teme d’essere la prossima invasa, non c’è? Perché il finlandese Alexander Stubb ma non Varsavia, potenza emergente di un’Europa slittata a est? Neppure le amicizie fanno – da sole – da bussola: Meloni predicherà pure «l’unità dell’occidente» su una trumpiana cartina, ma pure Tusk e Nawrocki non scherzano, grande acquirente d’armi Usa il primo, sbandieratore di Maga l’altro.

La verità è che tutti i volenterosi sono uguali ma qualcuno è più uguale di altri, parafrasando Orwell per descrivere la fattoria degli europei.
L’ombra di Donald

Cominciando da Alexander Stubb: la versione mediatizzata è che il presidente finlandese avrebbe assunto un ruolo di primo piano in virtù della sua capacità di entrare nelle grazie del tycoon; da marzo in particolare, quando i due hanno interagito tra un tiro e l’altro sui campi da golf. Il che già ci introduce alla questione di fondo: sono gli europei a determinare chi li rappresenta, o anche in questo Trump è riuscito a sparigliarli e a decidere per loro? Si può propendere per la seconda opzione, ma il racconto sarebbe semplicistico e grottesco se si fermasse a chi è più bravo a compiacere il tycoon. Stubb ha da vantare pure che «il cessate il fuoco in Georgia sia stato scritto sul mio laptop» (detto a Domani nel 2022): presenta un know how in fatto di negoziati con Mosca, pregressi che vanno da ruoli di governo, accademici, alla Banca europea degli investimenti.

Perché dovrebbero esserci alcuni e non, per esempio, i baltici? Erano i meloniani stessi a chiederlo, quando la premier era lasciata più ai margini, come evidente a maggio: oltre all’assenza sul treno per Kiev, pure quella dagli incontri a margine a Tirana. Dapprima Meloni ha motivato la cosa col suo presunto rifiuto di inviare truppe, ma era un bluff (Tusk agli incontri c’era e diceva da tempo: «La Polonia non manda truppe»). Un intervento trumpiano ha tirato la premier fuori dall’impasse: in primavera l’amministrazione Usa le ha messo in mano il ruolo di ospite di un incontro tra Vance e von der Leyen; e Meloni si è ripresa uno spazio.

Francesca De Benedetti