Smontato il jobs act: sui licenziamenti dipendenti e titolari sono nelle mani dei giudici

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Se il governo Meloni, in autunno, deciderà di accendere un faro sulla normativa del lavoro, dovrà certamente farlo anche sul tema, delicato e storicamente divisivo, dei licenziamenti.

Questo perché l’attuale disciplina, per come è stata riscritta dalle sentenze della Corte costituzionale nel periodo 2018-2025, e per come è stata interpretata dalle pronunce della Corte di Cassazione, ha raggiunto un eccessivo livello di imprevedibilità delle regole applicabili al caso concreto, con una ri-espansione della discrezionalità dei giudici e degli ambiti di applicazione della tutela reintegratoria.

Una direzione esattamente opposta a quella intrapresa dal Legislatore del 2015 che, con il cosiddetto Jobs Act, aveva provato a intensificare l’utilizzo della sanzione indennitaria e a dare maggiori certezze sui “costi di separazione”.

Il risultato, in estrema sintesi, è che oggi il regime delle sanzioni applicabili al licenziamento illegittimo ha contenuti davvero molto simili a quello introdotto negli anni Settanta dallo Statuto dei lavoratori che, ormai da quasi quindici anni, il legislatore, e i governi di un po’ tutti i colori politici, hanno dimostrato di ritenere inadeguato per l’attuale contesto socioeconomico.

Un sistema, in sostanza, troppo complicato anche per i tecnici della materia (giudici compresi) e, di conseguenza, incapace di assecondare l’aspettativa di lavoratori e imprese di disporre di riferimenti legislativi chiari. Il tutto, e lo vogliamo dire con estrema chiarezza, con buona pace di quella sensazione di incertezza giuridica (e sanzionatoria) che negli anni ha sempre frenato gli investimenti e l’arrivo di imprese dall’estero.

1 PICCOLE IMPRESE

Torna la discrezionalità dei giudici su indennizzi L’ultima “picconata”, in ordine di tempo, è stata data lo scorso luglio, quando la Consulta con la sentenza n. 118 ha dichiarato incostituzionale, per i licenziamenti di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 intimati in unità produttive con meno di 15 dipendenti (da datori di lavoro che complessivamente occupano meno di 60 dipendenti), il tetto di sei mensilità dell’ultima retribuzione.

Secondo i giudici l’imposizione di «un simile limite massimo, fisso e insuperabile, a prescindere dalla gravità del vizio del licenziamento… fa sì che l’ammontare dell’indennità sia circoscritto entro una forbice così esigua da non consentire al giudice di rispettare i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento del danno sofferto dal lavoratore illegittimamente licenziato, né da assicurare la funzione deterrente della stessa indennità nei confronti del datore di lavoro».

Per effetto di questa sentenza, dunque, per i tanti che ormai ricadono nel campo di applicazione del Jobs act, in caso di licenziamento illegittimo intimato da una piccola impresa la sanzione economica è quantificata dal giudice tra un minimo di 3 ed un massimo di 18 mensilità. Se, però, il lavoratore è assunto prima del 7 marzo 2015, e quindi trova applicazione la previgente normativa che il Jobs act voleva rendere meno onerosa e meno esposta al rischio di un eccessivo soggettivismo giudiziale, la legge n. 604 del 1966 fissa l’indennizzo massimo in 6 mensilità.

Con la possibilità, quando il licenziamento è intimato da piccole imprese con maggiore consistenza occupazionale, di arrivare fino a 10 mensilità (solo in caso di lavoratore con anzianità maggiore di 10 anni) o fino a 14 mensilità (solo in caso di lavoratore con anzianità superiore a 20 anni).

In sostanza, la normativa applicabile a partire dal 2015, che nelle piccole imprese per i nuovi assunti voleva ridurre l’indennizzo previsto dal legislatore negli anni sessanta, oggi sanziona il licenziamento illegittimo con un risarcimento che, per un verso, è più consistente (18 vs 6 mensilità, maggiorabili a 14 solo per i lavoratori con venti anni di servizio) e, per l’altro, anche maggiormente rimesso alla discrezionalità giudiziale (giacché la quantificazione di 18 mensilità potrebbe essere disposta dal giudice anche per un neo assunto, prescindendo dall’esistenza di un parametro vincolante dettato dalla anzianità di servizio del lavoratore).

2 I CRITERI PER L’INDENNIZZO

Ora non conta più solo l’anzianità di servizio Tornando indietro con le lancette, la prima spallata al Jobs Act è datata novembre 2018 quando con la sentenza n. 194 i giudici hanno dichiarato incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato, rigidamente ancorato dal legislatore del 2015 solo all’anzianità di servizio con lo specifico obiettivo di limitare i rischi di una eccessiva discrezionalità del giudice.

Secondo la Consulta il meccanismo di quantificazione – un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio – «renderebbe l’indennità “rigida” e “uniforme” per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, così da farle assumere i connotati di una liquidazione “forfetizzata e standardizzata” del danno derivante al lavoratore dall’ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato».

Per la Corte, in sostanza, la norma, per come congegnata, precludeva la possibilità di modulare la sanzione in base alla specificità del vizio che affliggeva il licenziamento. Ond’è che, rimosso questo rigido criterio di quantificazione, il giudice, nell’esercitare la propria discrezionalità nel quantificare la sanzione tra un minimo (4, ora 6 mensilità) e un massimo (24, ora 36 mensilità) fissati dalla legge, non deve più tener conto solo dell’anzianità di servizio – criterio che ispira il disegno riformatore del 2015 – ma, pur in assenza di esplicite previsioni della legge del 2015, deve fare riferimento agli altri criteri «desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)».

Sostanzialmente per gli stessi motivi, con sentenza n. 150 del 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato nuovamente incostituzionale il Jobs Act nella parte in cui, per la determinazione dell’indennità minima dovuta al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo per vizi formali o procedurali, faceva esclusivo riferimento all’anzianità di servizio. La ratio di queste pronunce è chiara e non può negarsi che ogni caso concreto presenta specificità che meritano di essere considerate ai fini della modulazione del regime sanzionatorio.

Claudio Tucci e Marco Marazza