Salario minimo: il punto della situazione

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Negli ultimi anni in Europa stanno circolando due proposte politiche di grande impatto, che vengono considerate proficue sia per il lavoro dipendente che per l’impresa. Stiamo parlando della riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario e di produttività e del salario minimo orario. Sulla prima abbiamo già scritto1, mentre ora proveremo a fare il punto sulla seconda – quella sul salario minimo –, sulla quale ultimamente sembra starsi concentrando il dibattito politico.

Il dibattito degli ultimi anni

Nel 2022 l’Unione Europea promulgò una direttiva2 – ossia una dichiarazione d’indirizzo che impone agli Stati nazionali di affrontare certe tematiche e perseguire determinati obiettivi a esse inerenti, lasciandoli però liberi di scegliere le modalità con cui farlo – che chiedeva il «miglioramento dell’accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo». Quindi: non direttamente il salario minimo, bensì l’accesso alla tutela che questo garantisce. Inoltre, «qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva [in uno Stato membro dell’Unione] sia inferiore a una soglia dell’80%», la direttiva avrebbe imposto la costruzione di «un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva, per legge a seguito della consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste ultime» e, quindi, la messa a punto di «un piano d’azione per promuovere la contrattazione collettiva». In caso si fosse adottato un salario minimo legale (e solo in questo caso), poi, si sarebbe dovuto ricorrere a dei «valori di riferimento indicativi (…).

A tal fine, si possono utilizzare valori di riferimento indicativi comunemente utilizzati a livello internazionale, quali il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio». Considerando che il salario lordo medio italiano è attualmente di 15,57€/ora e, il netto, di 11,25€/ora3, appare chiaro che la Direttiva Ue sia semplicemente un timido atto d’indirizzo volto a uniformare il mercato del lavoro comunitario soprattutto per quanto riguarda i Paesi economicamente meno sviluppati, non l’Italia.

Persino la proposta di salario minimo del PD, infatti, è nettamente superiore ai parametri espressi nella Direttiva. Questa dunque era rivolta soprattutto a quei paesi europei dove la contrattazione collettiva non esiste e che poi sono quelli che spesso si prestano a essere destinatari dei processi di esternalizzazione di alcuni servizi – Ungheria, Romania, alcuni paesi dell’ex-Yugoslavia –. La direttiva europea, dunque, doveva servire a placare la competizione intestina nel mercato europeo basata sulla sperequazione del costo del lavoro.

A prescindere da ciò, non tenere conto di una norma europea significa incorrere in procedimenti sanzionatori nei confronti del Paese inadempiente, ragion per cui il Governo dovette elaborare una strategia politica per fare fronte agli obblighi comunitari. Nel luglio 2023 Meloni diede mandato al Cnel di preparare una memoria sul lavoro povero e il salario minimo, che piacque anche ai sindacati confederali. Successivamente – in ottobre – venne avviata la cosiddetta “fase istruttoria tecnica sul lavoro povero e il salario minimo”, durante la quale uscirono fuori dei disaccordi con le parti sindacali (prima con la Cgil e, poco dopo, anche con la Uil)4. Proprio in ottobre, tra l’altro, arrivò una storica Sentenza della Corte di Cassazione5 che, rifacendosi all’Articolo 36 della Costituzione, imponeva al legislatore il riconoscimento di un salario minimo de facto per tutelare un vigilante di un supermercato Carrefour che si era visto cambiare il contratto di lavoro e calare lo stipendio da un momento all’altro.

In tale contesto il Governo chiese al Cnel di fornire una misura della copertura contrattuale dei lavoratori italiani, per verificare che si fosse entro il limite minimo dell’80% fissato dall’Ue. In caso affermativo il Governo avrebbe potuto sostanzialmente ignorare la Direttiva e difatti la ministra del lavoro Calderone (FdI), alcuni mesi fa, ha detto che «non abbiamo bisogno di attuare la direttiva sul salario minimo, perché il livello della contrattazione collettiva nazionale in Italia è superiore all’80%»6.

A essere sinceri siamo proprio al limite e, in ogni caso, nella percentuale dei “tutelati” vanno inclusi molti lavoratori vittime di contratti pirata fatti ad hoc7 e firmati anche da una sola organizzazione sindacale, spesso confederale. Contratti di questo tipo sono relativamente comuni nelle situazioni di appalto e subappalto, dove minori sono i controlli e più bassi i salari e le tutele – spesso vale anche per gli appalti del pubblico, ad esempio quelli della sanità o delle pulizie. Purtroppo la questione dei contratti pirata (edulcorata dalle responsabilità dei confederali) è stata utilizzata mediaticamente come cavallo di troia da Governo e Confindustria che, uniti, mirano a eliminare la possibilità di una contrattazione di secondo livello di miglior favore, come quella che può scaturire da un più alto livello conflittuale – vedi le lotte del SiCobas nella logistica.

Questa prima fase del dibattito sul salario minimo è stata di fondamentale importanza perché con essa non solo si sono definiti meglio i contorni della questione, sia a livello politico che in relazione alle giurisprudenze italiana e, soprattutto, europea: si è anche consumato un passaggio politico importante che ha visto i sindacati confederali – tramite le consuete sponde partitiche nel Parlamento – barattare letteralmente un’opposizione più forte, magari anche di piazza, con la difesa della contrattazione collettiva svolta dai sindacati “maggiormente rappresentativi”. Secondo un comunicato del Cnel «L’intera rappresentanza datoriale, pur nelle sue diverse espressioni di settore, si è dimostrata compatta nel difendere il sistema della contrattazione collettiva, rispetto a soluzioni semplicistiche di un problema complesso, come quello del lavoro povero»8.

Il vicepresidente del Cnel, espressione ufficiale di Confindustria all’interno dell’organismo, ha parlato esplicitamente di «un piano di azione nazionale, che potrebbe essere anche un utile contributo per consentire a Governo e Parlamento di riorientare, in termini di maggiore efficienza ed effettività, le risorse economiche a sostegno della contrattazione collettiva, dell’occupazione di qualità, del welfare aziendale e della produttività. Si tratta di ingenti risorse pubbliche che andrebbero indirizzate, in termini selettivi, verso i soli sistemi di contrattazione collettiva e bilateralità più consolidati»9. Probabilmente, quindi, in questa fase Confindustria spingeva per ottenere sgravi fiscali e incentivi per le imprese in cambio dei rinnovi dei Ccnl (orientati al welfare aziendale e alla produttività), nel tentativo di scaricare sulle finanze pubbliche parte degli oneri contrattuali