Genocidio a Gaza, le parole sono pietre

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Le parole sono pietre, non dovrebbe essere consentito adoperare la prima che viene come un fazzoletto di carta usa e getta. Ce n’erano parecchie, anche le più crude, che potevano dare un’idea di quanto accadeva a Gaza: strage, massacro, eccidio. E invece no: genocidio. Una sorta di «apriti Sesamo», di parola magica, l’unica, si direbbe, idonea a spalancare la porta alla verità delle cose e alla massima indignazione possibile: genocidio! genocidio! E dunque tutti a gridarlo, a scriverlo, a ripeterlo: convinti, compunti, inorriditi come si conviene.

E va bene: genocidio. Ma allora siano consentite almeno due osservazioni. La prima diciamo così comparativa: che terrificante prova di incapacità, d’inadeguatezza, stanno dando questi israeliani di cui da sempre tutti invece eravamo pronti ad esaltare la preparazione organizzativa e le conoscenze tecniche. Infatti quasi un secolo fa, quando bisognava ancora fare i progressi che si sono fatti, in tre-quattro anni i loro predecessori nel settore genocidi di persone ne fecero fuori almeno quattro cinque milioni: e loro invece? Loro, gli israeliani, nella metà del tempo sono riusciti a eliminare poco più di sessantamila persone: una vera debacle! Una prova d’inefficienza, d’inettitudine, d’incompetenza che non si può che definire sorprendente.

Com’è possibile? Non è urgente una spiegazione da parte di chi qui in Italia sembra essere così esperto nel tema?

La seconda osservazione è invece del genere serio. Tremendamente serio. Chi oggi grida al genocidio come se nulla fosse, chi accetta senza fiatare che qualcuno accanto a lui lo faccia, si rende conto che sta contribuendo a ridisegnare la storia? In pratica cioè a togliere qualunque eccezionalità ai drammi epocali del Novecento, a banalizzare come nessuno aveva provato a fare finora Auschwitz e l’Holodomor? A «normalizzare» quei carnefici e i loro delitti, a compiere un’operazione di revisionismo storico che non ha eguali?

Ernesto Galli della Loggia