Il governo riflette la personalità dominante della sua leader. Un monolite che non tollera crepe, né deviazioni. Meloni non è solo presidente del Consiglio: è brand, narrazione, mood nazionale. Lo dimostra l’accoglienza al meeting di Comunione e Liberazione, tra applausi e commozione. Un’ovazione che non celebra solo un programma, ma una figura.
Meloni attorno a sé ha costruito un’aura di ordine e disciplina. Una sobrietà che rassicura, e proprio per questo piace. I sondaggi la premiano, il vento resta in poppa. Ma sotto la superficie levigata, dietro lo sguardo da sergente maggiore, si intravede un velo. Un’anima politica sfuggente, nutrita di ambivalenze, refrattaria alle categorie tradizionali.
Con oltre mille giorni di mandato, il governo Meloni ha superato ampiamente la durata media di un esecutivo italiano. Solo Berlusconi e Craxi hanno fatto meglio. Un risultato che, al di là delle valutazioni politiche, merita attenzione: per la tenuta, per la continuità, per la capacità di occupare lo spazio senza clamore.
La sua leadership è verticale, ma non autoritaria. Affettiva, ma priva di empatia. Meloni non cerca il consenso: lo pretende. E lo ottiene con una strategia comunicativa che mescola spontaneità e controllo, battute improvvise e silenzi chirurgici. Iconiche sui social le sue risate sguaiate, gli occhi strabuzzati, le espressioni calibrate. Tutto studiato per comunicare in maniera trasversale fallibilità, umanità, popolarità.
Il rapporto con la stampa è emblematico. Meloni parla poco, e quando lo fa, lo fa da sola. Senza contraddittorio, senza domande. Come se il confronto fosse una debolezza, non il fondamento della democrazia. La costruzione del personaggio è paradossalmente emotiva: una tensione costante tra vulnerabilità e dimostrazione di forza, tra rivendicazione e rimozione. La narrazione ufficiale la vuole figlia del popolo, della Garbatella, ma governa come una madre severa, inflessibile. Evoca il passato, ma lo lascia fuori campo. E quando quel passato bussa – busti del Duce, nostalgie dei camerati, Acca Larentia – lei si irrigidisce, si chiude. Come se fosse una ferita non rimarginata. O forse, semplicemente, per non dispiacere alla base nostalgica.
In questo scenario, il governo non appare più come un organismo politico, ma come una scenografia sospesa. I dossier si accumulano, le riforme si impantanano, le contraddizioni si moltiplicano. Eppure tutto resta immobile, come se l’azione fosse un disturbo. Il centro di gravità non è nella politica, ma nella figura iperattiva e silenziosa di Giorgia Meloni. Lei è il governo. E il governo è Giorgia Meloni. Un processo di assimilazione totale, dove l’identità dell’esecutivo si fonde con quella della sua leader.
La sobrietà è diventata il nuovo lusso. Meloni la indossa con naturale eleganza. Nessuna teatralità, niente urla, proclami, balconi o pugni sul tavolo. Solo calma e controllo. Una compostezza che non è passività, ma strategia chirurgica: occupare ogni spazio disponibile, senza mai fare troppo rumore.
La propaganda non è roboante, è insinuante. Non si impone, penetra lentamente, a cerchi concentrici. E proprio per questo è più efficace. Basta guardare alla Rai, un tempo teatro di pluralismi e contraddittori, oggi salotto monocromatico. Le nuove nomine, contestate dall’opposizione, hanno reso chiaro il messaggio: il pluralismo è un fastidio, la satira un rischio, il giornalismo un esercizio da moderare. Ordine, disciplina, sobrietà. Ma senza pianti e senza strepiti.
L’economia è il palcoscenico dove la narrazione si fa illusione. I dati sull’occupazione sventolati come trofei nascondono crepe profonde: contratti a termine in aumento, autonomi in calo, donne ai margini, Sud sospeso tra stagnazione e nuova emigrazione. Il governo rivendica sobriamente un milione di nuovi posti, ma sorvola sul fatto che molti siano part-time, instabili, sommersi. Parla di disoccupazione, ma omette il tasso di occupazione, dove l’Italia resta fanalino di coda in Europa.
Gianvito Pipitone

