“Come uccelli in gabbia”: due testimoni raccontano come l’Afghanistan sia tornato una prigione per le donne

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in pochi mesi sono stati cancellati diritti fondamentali conquistati nei vent’anni precedenti. Da allora i talebani hanno emanato centinaia di editti che colpiscono direttamente le donne e le ragazze, creando un vero e proprio sistema di segregazione di genere che molti osservatori internazionali definiscono “apartheid di genere”.

Ne è derivato un contesto in cui metà della popolazione è stata privata della possibilità di studiare, lavorare, muoversi liberamente e partecipare alla vita sociale del Paese. La libertà di movimento è stata tra le prime a essere limitata: per viaggiare, soprattutto su lunghe distanze, le donne devono farsi accompagnare da un familiare maschio. Uscire di casa significa inoltre sottostare a rigide norme sull’abbigliamento: corpo e volto devono essere coperti integralmente con burqa o abaya, e la responsabilità di eventuali violazioni ricade anche sugli uomini della famiglia.

Alle donne è stato negato l’accesso a gran parte degli spazi pubblici, dai parchi alle palestre, dai bagni ai saloni di bellezza, fino ai siti storici. Ancora più grave è stata la chiusura delle scuole secondarie e delle università, che rende l’Afghanistan l’unico Paese al mondo a impedire formalmente alle ragazze di proseguire gli studi oltre la scuola primaria. Sul fronte del lavoro, la presenza femminile è stata quasi del tutto cancellata: alle donne è vietato lavorare nelle amministrazioni statali, nelle ong e persino nelle agenzie delle Nazioni Unite. Anche le strutture legali create in passato per la loro protezione sono state smantellate. Persino la voce femminile è considerata pericolosa: parlare in pubblico, cantare o semplicemente farsi sentire fuori dalle mura domestiche può comportare punizioni.

Giustizia e salute negate
Oltre alle restrizioni sulla vita pubblica, i talebani hanno trasformato il sistema giudiziario in uno strumento di oppressione. La Costituzione del 2004 è stata sospesa e le leggi che tutelavano le donne dalla violenza cancellate. Circa 270 giudici donne sono state allontanate e sostituite da uomini che applicano editti religiosi, spesso senza alcuna formazione giuridica. Le avvocate, le procuratrici e tutte le professioniste del diritto sono state estromesse, cancellando in pochi mesi anni di faticosa costruzione di competenze. Per le donne, questo significa non avere più alcun accesso a una giustizia imparziale: denunce di violenze domestiche o matrimoni forzati non trovano ascolto, e la giustizia informale – dominata dagli uomini – è rimasta l’unica via percorribile. La stessa logica di esclusione si riflette nel settore sanitario. Negli ultimi anni i talebani hanno vietato la formazione di infermiere e ostetriche, pur impedendo alle donne di farsi curare da medici uomini.

In un Paese già segnato da alti tassi di mortalità materna e infantile, queste scelte rischiano di aggravare una crisi sanitaria drammatica. Ospedali e cliniche sono sovraffollati, ma per le donne l’accesso alle cure di base diventa sempre più difficile, e spesso è negato del tutto.

Il recente terremoto, che ha provocato oltre 2.200 morti e circa 3.600 feriti, ha reso ancora più evidente la vulnerabilità delle donne afghane. Nei villaggi colpiti, intere famiglie hanno perso la casa e l’accesso ai servizi essenziali, ma per le donne la situazione si è fatta ancora più drammatica. Da un lato, la scarsità di personale sanitario femminile – conseguenza diretta dei divieti imposti dai talebani sulla formazione e sul lavoro delle donne – significa che pochissime mediche, infermiere o ostetriche sono disponibili per assistere le vittime. Dall’altro, le rigide norme religiose e sociali vietano ai medici uomini di toccare o curare liberamente una donna senza la presenza di una sanitaria donna o di un familiare maschio. In un contesto di emergenza, dove la rapidità delle cure può fare la differenza tra la vita e la morte, questo diventa un ostacolo insormontabile.
Molte donne ferite sono state costrette ad attendere ore prima di ricevere assistenza, oppure sono state curate solo parzialmente, con il rischio di complicazioni permanenti. Nei campi provvisori allestiti per i sopravvissuti, la separazione degli spazi tra uomini e donne rende ancora più difficile distribuire beni di prima necessità come tende, cibo e acqua. Le donne che hanno perso il marito o non hanno un accompagnatore maschio si trovano in una condizione di isolamento quasi totale, senza la possibilità di chiedere aiuto o muoversi liberamente per raggiungere i centri di soccorso.

In questo modo, la tragedia naturale si intreccia con l’apartheid di genere già in atto: mentre tutta la popolazione soffre le conseguenze del sisma, le donne vengono colpite due volte, dalle macerie e dalle leggi che le condannano all’invisibilità.

Lara Tomasetta