Nel 1973 Oriana Fallaci ha 44 anni. Viene intervistata da Judy Klemersud del New York Times che, nelle prime righe, la definiva così: «È una delle giornaliste più note al mondo, e probabilmente meno amate». Le sue interviste per L’Europeo erano ristampate in tutto il mondo e «alcuni dei suoi bersagli l’hanno definita stronza, infelice, maleducata e una sporca bugiarda» si legge ancora sul New York Times.
Il Newsweek la definiva una «superstar internazionale». Aveva già uffici a New York, Milano e Roma, una casa a Manhattan oltre all’amata dimora toscana. Quando il suo nome appariva sulla copertina de L’Europeo le vendite si impennavano, aumentando la tiratura anche di 50mila copie.
Pensava che la sua migliore intervista fosse quella a Golda Meir (perché era stata la «prima giornalista a chiederle del suo tragico matrimonio») e la peggiore quella a Bob Kennedy (perché «non puoi parlare per un’ora o un’ora e mezza con una persona che si guarda sempre le scarpe, o che non ti guarda mai negli occhi, o che è sempre sulla difensiva»).
Non desiderava sposarsi, ma avrebbe voluto avere dei figli. Le sarebbe piaciuto avere una figlia per poterle spiegare come aveva fatto sua madre con lei «le cose che si soffrono quando si è donne. Le direi che quando si è donne e si lavora in un mondo maschile, bisogna essere intelligenti il doppio di un uomo. Altrimenti si viene rifiutate».
Due anni dopo sarebbe uscito per Rizzoli Lettera a un bambino mai nato. Un libro sulla libertà di scelta, e pertanto un libro sul potere.
A distanza di cinquant’anni, la penna di Oriana Fallaci torna a dirci che la relazione tra la donna e la scelta di diventare madre implica tante dimensioni del potere. Quello generativo, ancestrale che fa del corpo di una donna la soglia tra due esistenze. E che, ricordano queste pagine, non è un potere neutro. Può essere dono o peso, responsabilità sacra o schiacciante.
Ma il potere è anche sociale, normativo. Esponeva cinquant’anni fa (e espone ancora oggi) sul corpo della donna le proiezioni della società, le sue aspettative, i giudizi, i ruoli precostituiti. È a quella donna che parla Oriana Fallaci, la donna che smette di essere quello che desidera e diviene quello che si presume desideri, che si presume senta, trasformando la maternità non più in una scelta ma in una espropriazione di identità[…] L’Italia in cui (e a cui) scriveva Oriana Fallaci era un paese che privava le donne del diritto di decidere sul proprio corpo. Oggi, cinquant’anni dopo, l’Italia riconosce formalmente il diritto all’aborto ma il tasso di obiettori di coscienza e la frammentazione territoriale hanno trasformato un diritto in una chimera. Il nostro è un paese in cui tra il 1997 e il 2016 i ginecologi obiettori sono passati dal 62,8% al 70,9% e nei dieci anni successivi la legge non è migliorata, anzi. In alcune aree è peggiorata o cristallizzata, creando una realtà ancora più disomogenea tra Nord e Sud. […]L’Italia di oggi è insieme il paese dell’“inverno demografico” e il paese in cui una donna su cinque esce dal mercato del lavoro dopo essere diventata madre.
E le due cose camminano a braccetto: la società che chiede alle donne di essere madri, non dà loro assistenza, relegandone il ruolo nella comunità, al medesimo che avevano cinquant’anni fa e punendole se decidono sul proprio corpo. […]
Cosa avrebbe scritto Oriana Fallaci, oggi, su Adriana Smith, la donna cerebralmente morta che in Georgia è stata tenuta in vita con il sostegno medico artificiale, perché incinta?
Cosa avrebbe scritto della sua famiglia, che non ha potuto scegliere perché l’ospedale in cui era ricoverata ha seguito la legge statale che vieta l’interruzione di gravidanza da quando è possibile individuare il battito del cuore del feto?
È diritto alla vita quello che impone un parto prematuro alla 32ª settimana da una donna dichiarata cerebralmente morta?
Lettera a un bambino mai nato ha lo stesso movimento delle interviste di Oriana Fallaci, è un libro che ha un’energia cinetica, e porta due forze in movimento uguale e opposto, una che accoglie e l’altra che bracca una parte profondissima di sé, la sfida, si risponde, e infine si contraddice.
Possiamo leggere questo libro, immaginando Oriana Fallaci, con un registratore acceso a fare, con sé stessa, ciò che l’ha resa celebre, venerata e odiata, con i grandi del mondo. Interrogare il proprio io con la stessa tensione morale e intellettuale che metteva nei suoi confronti pubblici con i potenti.
Più che un monologo, dunque, Lettera a un bambino mai nato è una conversazione. Tra la donna senza nome che rivendica il suo posto nel mondo, nella società, nella piramide capovolta dei valori, e la sua parte più inquieta, intensa, lucida, tormentata.
Una donna consapevole della sua libertà e del prezzo che comporta esercitarla. […]
È questo che rende il libro così intimamente politico, e così necessario.
In tempi che hanno bisogno di risposte pronte all’uso, queste pagine continuano a gridare una contraddizione, è stato questo che ha messo a disagio chi chiedeva a Oriana Fallaci una coerenza ideologica ed è proprio nella tensione impossibile da risolvere che anima le sue righe che giace la sua forza. La sua forza è la scomodità del dubbio.[…]
Oriana Fallaci ci ricorda, interrogando un corpo che è forse suo ma in fondo di tutte, che se tutto è autobiografico, niente è autobiografico.
Entra nel paradosso e lo supera. Se ogni cosa che scriviamo o diciamo è inevitabilmente legata a noi, al nostro vissuto, se ogni espressione dell’essere umano è, in fondo, un riflesso di sé, non esiste più una soglia chiara tra ciò che è autobiografico e ciò che non lo è. […]
Lettera a un bambino mai nato è un libro in cui Oriana Fallaci ha interrogato il (suo?) corpo come un corpo universale, lo ha fatto coraggiosamente, con un registratore puntato verso il suo utero abitato o non abitato, non importa. E ci ha consegnato un consiglio che poi è un avvertimento.
Francesca Mannocchi


