O, più probabilmente, con la realtà. Perché raccontare in due interviste consecutive che “il 90% delle lezioni è in presenza” quando i dati degli atenei dicono tutt’altro non è semplicemente un errore: è una scelta politica. Quella di prendere in giro studenti e famiglie.
A Palermo e Catania il semestre filtro si fa solo su Teams, quindi lo 0% di lezioni in aula. Zero, non novanta. A Bologna e Milano il massimo della presenza si è visto a settembre, poi tutti davanti al pc. A Messina e Napoli un po’ di blended, a Firenze e Tor Vergata turnazioni e streaming. I numeri reali? Tra il 30 e il 60% di didattica in presenza. Insomma, altro che 90%.
Eppure la ministra si loda e si imbroda: “Abbiamo investito 25 milioni nel 2024 e 50 nel 2025 per nuovi laboratori e aule”. Peccato che, nel frattempo, gli studenti in molte città non abbiano neanche visto un banco: solo icone su Teams. Forse i milioni sono serviti a comprare nuove cuffiette e webcam?
Il punto è che la Bernini vende come “passaggio culturale” quello che nella realtà è una toppa mal cucita: non più il quiz di cento minuti, ma un semestre di limbo, in cui metà Italia studia online e l’altra metà si arrangia tra turni e streaming. La formazione centrale, dice lei. Centrale forse nel discorso politico, non certo nell’università italiana.
Insomma, il “90% in presenza” della ministra somiglia alle previsioni meteo quando dicono “sole pieno”: esci senza ombrello e ti ritrovi sotto il diluvio. Solo che qui non si tratta di bagnarsi, ma di mandare in tilt il futuro di migliaia di studenti


