Taglia e cuci. Perché possiamo e dobbiamo imparare anche da noi stessi

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La sistematizzazione dei valori e degli ideali di un popolo che trovano espressione nelle prassi si definisce cultura politica. Si tratta di un concetto antico e persistente, riconosciuto già da Platone e, forse per questo, uno dei concetti più pericolosi da maneggiare nel già complesso mondo della politica. Praticamente impossibile da rilevare con gli strumenti della scienza comportamentale, quando la si sussume in maniera impressionistica il rischio è spesso quello di sfociare in stereotipi sul “carattere dei popoli”: una scelta che spesso rischia di palesare pregiudizi ingiusti, se non del tutto falsi.

Uno dei più diffusi di questi stereotipi descrive gli italiani come un popolo politicamente passivo. D’altronde, chi di noi non ha detto almeno una volta in una conversazione conviviale “gli italiani scendono in piazza solo se gli togli la Serie A”; o ancora, a chi non è mai capitato di sentire frasi tipo “eh i francesi sì che sanno fare le proteste. Quelli quando scendono in piazza sono duri, altro che noi”. Giudizi aspri e miopi, in specie se si pensa che l’Italia repubblicana è stata, per almeno metà della sua vita, una democrazia altamente conflittuale, con organizzazioni, partiti e corpi intermedi numerosi, ramificati e combattivi. La condizione celata che sostiene questo pregiudizio è che la maggior parte degli italiani, politicamente, negli ultimi 40 anni è stata allevata alla passività.

Un’operazione certosina fatta di scoraggiamento, disimpegno, servilismo, piloti automatici, colpi di stato soft, attacchi economici alla stabilità del lavoro, al potere dei salari, ai servizi offerti dallo Stato ecc.: una serie senza fine di bastonate in testa che avrebbero stroncato chiunque. Per questo quanto successo lunedì 22 settembre è un risultato da celebrare. Per la prima volta dall’ondata dei Vaffa Day nelle piazze è sembrato esserci qualcosa su cui costruire (quantomeno le speranze).

È cosa arcinota che quei partiti e quelle organizzazioni che hanno segnato quei 30 gloriosi di combattività sociale e partecipazione politica si sono o dissolti, o hanno abdicato al loro compito. Questo è certamente il caso dei tre grandi sindacati confederali. E, tuttavia, nel corso degli ultimi 15 anni sono stati comunque loro gli unici a riuscir a popolare sporadicamente le piazze, grazie all’eredità di una struttura solida e capillare e di una politicizzazione combattiva. La principale conseguenza di questo stato di cose è stata però il congelamento della partecipazione.

Ad un certo punto, ci si è abituati a fare la conta per ogni mobilitazione: sempre le stesse persone e gli stessi gruppi, quasi sempre per le stesse motivazioni e, ancora più di frequente, in virtù degli stessi incentivi. Un male endemico, che non ha permesso un ricambio tra le file dei quadri e dei dirigenti sindacali, che ha allontanato i (pochi) giovani interessati e che ha eroso la credibilità delle organizzazioni anche agli occhi di molti dei loro coetanei.

Per tutti questi motivi, prima del 22 settembre nessuno credeva che questo stato di cose fosse vagamente modificabile. Infatti, quando un sindacato di base, definito piccolo ma che oggi conta 250mila iscritti, ha proposto uno sciopero generale l’intento era semplicemente quello di lanciare un messaggio simbolico. Ci si augurava di poter far convergere e unificare lo stesso numero di persone che avevano animato i molti rivoli di manifestazioni contro il genocidio palestinese negli ultimi mesi. Poi, invece, la contingenza radicale ha deciso che era tempo di fare una capatina anche da queste parti; la Storia ha pensato di darsi una scrollata e ha voluto ricordarci che i suoi rintocchi possono sentirsi anche a queste latitudini.

E così, martedì 23 settembre 2025 l’Italia è diventata uno degli epicentri politici mondiali. AP, BBC, CNN, Al Jazeera, DW, Politico, Global Times: molte delle principali emittenti del mondo hanno l’Italia in testa ai titoli. Si parla di “General Strike”, “more than 80 manifestations all over the Country”, “almost a million”: se per una volta smettessimo di avere paura anche della nostra ombra potremmo addirittura pensare di sottrarre l’espressione “orgoglio nazionale” e “amor di patria” ai conservatori. Perché è indubbio che ci sia di essere orgogliosi.

Purtroppo, siamo ancora lontani da questo, ma è certo che è lì che dobbiamo andare. “Demanding action for Gaza” è probabilmente l’espressione più bella e romantica che ha deciso di usare la BBC: un verbo che finalmente ha il sapore della pretesa. Persino i giornali dei cugini d’Oltralpe parlano delle manifestazioni italiane e ammettono che stavolta quelli da ammirare siamo noi.

Silvano Poli