Matteo Ricci merita soltanto un ringraziamento per la generosità messa in campo

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È sempre stato un uomo del fare, un amministratore riformista, lontano dalle rigidità ideologiche e con la reputazione di persona concreta: un profilo che piace ai cittadini. Eppure, in questa campagna elettorale, è stato rappresentato come diverso da sé stesso. Ha finito per assumere un profilo più vicino alle battaglie identitarie che oggi dominano nel mondo progressista, perdendo quel tratto distintivo che lo aveva reso credibile: pragmatismo e affidabilità.
Va detto, per onestà, che l’assurdo incidente giudiziario esploso a ridosso del voto, pur risolto rapidamente a suo favore, ha lasciato segni difficili da cancellare. Ma siamo ormai rassegnati a un sistema malato, in cui la giustizia arriva sempre al momento sbagliato.
L’errore politico più evidente, però, è stato legare in modo ossessivo la campagna sul futuro delle Marche al tema palestinese: una bandiera che non spetta a un presidente di Regione. Gli elettori sanno distinguere ciò che appartiene ai palazzi romani da ciò che incide davvero sulla vita quotidiana.
Il risultato è che, paradossalmente, Acquaroli, un presidente mediocre e un amministratore scialbo, è apparso più vicino ai bisogni del territorio, nonostante il logorio di cinque anni al governo.
Eppure, le debolezze di Acquaroli erano sotto gli occhi di tutti. Avremmo dovuto inchiodarlo maggiormente alle sue responsabilità, a partire dalla sanità, segnata da falle e disservizi: un terreno perfetto per metterlo in difficoltà, anche trascinando il governo nazionale e la presidente del Consiglio alle proprie responsabilità. Invece, quell’arma è rimasta in parte spuntata. Lo stesso è accaduto sui temi economici: le tasse più alte, i dazi che penalizzano le esportazioni marchigiane, imprenditori e lavoratori lasciati soli. La Meloni avrebbe dovuto vergognarsi a mettere piede nelle Marche e invece è arrivata con l’arroganza del potere, distribuendo qualche risorsa con finalità elettorali e rilanciando l’ennesimo “spottone” sulla Zes.
Non sorprende allora che l’affluenza sia rimasta bassa: solo un elettore su due ha scelto di andare al seggio. E quando vota poca gente, prevale quasi sempre chi gestisce il potere. Perché da un lato l’arroganza istituzionale avvelena l’acqua della partecipazione, dall’altro i notabili che in quell’acqua sanno nuotare meglio di chiunque altro garantiscono la massima mobilitazione. E così il voto d’opinione, quello che avrebbe potuto cambiare il destino, resta a casa.
Una sconfitta non è un dramma: il percorso unitario del centrosinistra deve continuare. Ma l’unità, da sola, non basta. Servono forze politiche radicate negli interessi reali degli italiani, che non si lascino distrarre dal fumo delle ideologie. È su questa base che va costruita, passo dopo passo, la Casa Riformista.