Un italiano perbene, che pagò il suo coraggio e il suo rigore con la vita.

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Giorgio Ambrosoli era un avvocato milanese di 41 anni quando, nel 1974, fu chiamato dalla Banca d’Italia a svolgere l’incarico più importante, difficile e complesso della sua carriera: il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana

. Ambrosoli fece quello che aveva sempre fatto, e lo fece bene. Forse troppo bene. Scoprì bilanci falsi, triangolazioni di conti, operazioni di riciclaggio internazionale, risparmiatori truffati, intrecci criminali tra politica, alta finanza, massoneria e mafia. E, al centro di tutto, la figura del dominus, quel Michele Sindona allora considerato ancora il re della finanza italiana e mondiale, con protezioni in America, nella loggia P2, nello IOR, in Cosa nostra, e pure nella politica. Ambrosoli fece quello che quasi nessuno avrebbe fatto e nessuno fece prima di lui: denunciò tutto, rifiutò di firmare carte false, di occultare prove ed evidenze. Provarono prima a fargli cambiare idea con le minacce, via via sempre più esplicite.

Lo Stato che avrebbe dovuto proteggerlo lo lasciò solo. Nel 1975, appena un anno dopo, lui aveva già capito tutto. Scrisse una lettera commovente alla moglie che oggi suona come una profezia. “Anna carissima, pagherò a caro prezzo l’incarico.

Ma non mi lamento: è un’occasione unica per fare qualcosa per il Paese”. Quel momento arrivò la sera dell’11 luglio 1979, quando, tornando a casa da una serata con gli amici, un sicario americano assoldato proprio da Sindona gli esplose contro quattro colpi di 357 Magnum, uccidendolo. Aveva 46 anni, una moglie, tre figli, uno dei quali, Umberto, raccolse la sua eredità civile e morale candidandosi anni dopo alla Presidenza della Regione Lombardia. Giorgio Ambrosoli appartiene alla schiera di quei servitori dello Stato di cui troppo presto e troppo a lungo ci siamo dimenticati. Un “eroe borghese”, come recita il bellissimo libro di Corrado Stajano a lui dedicato.