Il “che fare”del Pd, la prudenza senza premio di Elly Schlein

0
6

Partecipare al dibattito sul futuro del partito democratico è come andare dal dentista. Preferiresti evitarlo, ma ti rendi conto che devi farlo

Anche chi ha dubbi sulla vitalità del progetto che condusse alla nascita del Pd deve accettare che è difficile immaginare una maggioranza alternativa a quella attualmente al governo che non lo includa.

Con questo partito “respingente” (come ha scritto Antonio Floridia sul manifesto) siamo prima o poi costretti a fare i conti.

Perché ne abbiamo bisogno nel medio periodo, e forse (alcuni di noi) nella speranza che possa migliorare, diventando un partito che vuole consolidarsi a sinistra, e in seguito costruire un’alleanza verso il centro.

Allo stato attuale la situazione non è entusiasmante perché l’attesa di novità associata alla elezione di Elly Schlein alla segreteria del partito è stata parzialmente delusa. Ci sono volti nuovi a livello locale, ma il rinnovamento si è scontrato con rapporti di forze che non era facile ribaltare dall’oggi al domani.

Le buone intenzioni non bastano. Oggi ci sono certamente dirigenti che si identificano più saldamente con Schlein, in alcuni casi non solo per condivisione dei contenuti ma anche per solidarietà generazionale, ma devono convivere con esponenti di varie anime del partito che si riconoscono nell’attuale segreteria (fino a quando?) e con i notabili che, specie al sud, hanno ripristinato, in un nuovo contesto, una concezione pre-novecentesca della rappresentanza.

Questa rete di rapporti di varia intensità e di diversa natura forse non sarebbe un ostacolo insormontabile al raggiungimento di una maggiore efficacia politica dell’insieme se la situazione non fosse aggravata dalla presenza all’interno del partito di una minoranza che si comporta come se fosse l’unica ad avere pienamente titolo a guidarlo.

Sin da quando Schlein è diventata leader, ha dovuto fare i conti con un fuoco di sbarramento di interviste, editoriali e dichiarazioni provenienti (o ispirate) da questa fazione che si identifica come “riformista” (termine che è sufficientemente vago da essere adattabile a qualunque causa, anche a quelle che appaiono ben lontane dall’identità di un partito che voleva raccogliere l’eredità della sinistra e del cattolicesimo democratico).

In occasione delle elezioni europee Schlein ha cercato di allargare il suo spazio di manovra all’interno del partito candidando buona parte degli esponenti di maggior peso dell’area riformista, ma questa mossa non ha avuto successo.

La pattuglia di europarlamentari che le è ostile ha cominciato infatti a comportarsi come una sorta di governo in esilio, alimentando (anche grazie al sostegno di numerose testate giornalistiche) una contrapposizione continua rispetto alle posizioni espresse dalla leader.

Difficile capire perché in questi due anni l’attuale segreteria del Pd non abbia almeno tentato di dare battaglia per il controllo del partito.

Molti hanno detto che ci sarebbe voluto un congresso, e al netto delle procedure, è indiscutibile che la novità sul piano simbolico della vittoria di Schlein nella competizione per la leadership avrebbe richiesto un passaggio di riflessione sull’identità del partito e almeno sulla cornice di un programma.

Invece, c’è stata molta tattica e pochissima strategia. Una certa abilità nel comunicare, ma senza mai prendere il controllo dell’agenda. Ad avere l’iniziativa è di solito il governo, e qualche volta l’altra opposizione costituita dal M5S.

La conclusione desolante è che l’attuale dirigenza del Pd sembra incapace di stabilire un’egemonia all’interno del partito, nell’opposizione, e in prospettiva nel paese. Se le cose non cambiano, questo lascia ben poco spazio alla speranza di sconfiggere nelle urne l’attuale maggioranza.