CIAO PIETRANGELI, LO ZAR DEL TENNIS IN BIANCO

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Il tennis dei gesti bianchi, delle Lacoste immacolate, delle meravigliose racchette dall’anima di legno, stanotte ha definitivamente abbassato il sipario. Senza tristezza, perché la sabbia scorre nella clessidra.
E tutto finisce. Finisce anche la favola bella di Nicola Pietrangeli, che è partito per la definitiva crociera a 92 anni. Principe russo nato per caso a Tunisi, figlio di un bell’emigrato italiano e di una nobildonna, Anna, figlia del colonnello zarista Alexis von Jurgens, che in prime nozze si era unita a un conte.
Nicola era tutto questo, un incrocio di destini, di territori, di culture. Era un romanzo, tutto da leggere. Un indolente, snob, meraviglioso giocatore di tennis. Con quel carattere lì, altezzoso, pieno di sussiego, spesso con il sopracciglio alzato, non poteva piacere a tutti. Piaceva relativamente anche agli avversari di quegli anni Cinquanta-Sessanta dove il tennis era uno sfizio dell’elite, un capriccio dei signori fasciati di bianco e delle ladies dell’alta borghesia che rischiavano le prime gonnelline e vezzose fasce a legare i capelli. Nicola non poteva non incarnarlo, quel tennis ormai color seppia. Era belloccio, atletico, sprezzante il giusto.
Vinceva tanto, due Roland Garros, due Internazionali, in coppia con l’altissimo e gelido friulano Orlando Sirola aveva composto uno dei doppi che hanno edificato il palazzo del tennis italiano. Si arrampicò, anno di grazia 1961, al numero tre delle classifiche mondiali, quando non esisteva il computer ma la graduatoria veniva sancita, come Cassazione, da un ristretto club di giornalisti specializzati.
Lo zar Nicola poetava leggiadro tra net e righe, ma la sua vita era altro, molto altro. Si allenava pochissimo, e come poteva sudare uno zar, e imponeva la sua spavalda avvenenza nelle notti tra Roma e Montecarlo, un valzer vertiginoso di cene, balli, incontri, donne. Si vive una volta sola, anche se si è fuoriclasse nello sport. E lui ha vissuto, con quello sguardo un po’ ribaldo e quel sorriso piacione, così romano alto borghese. Che piace a pochi, appunto.
Nicola dominava, col suo aplomb nobiliare, un tennis per pochi, lontanissimo dal popolo, snobbato dalle tv e dai giornali dell’epoca. Bastava poco, al figlio della contessa sfuggita alla rivoluzione d’Ottobre: i campionati italiani, qualche torneo internazionale, senza dannarsi l’anima, perché la Dolce vita era lì e spalancava le sue braccia. E lui l’abbracciava: donne, storie, lussi.
Lo zar tornò improvvisamente ad essere Pietrangeli all’alba degli anni Settanta, quando nella finale del torneo tricolore trovò un ragazzino magro, dal ciuffo ribelle e dal tocco fatato: lo aveva già notato, Adriano Panatta, figlio dei Ascenzio, custode del Parioli. “Tu sei il figlio di Ascienzietto?” gli chiese, non senza la proterva malizia del nobile che si trova a sfidare il paria. Il figlio di Ascenzietto, che giocava un tennis diverso, moderno, servizio, discesa a rete e sublime gioco di volo, spinse il nobiluomo Nicola giù al trono. Lui la prese male, squadernò il suo miglior sorriso da serata romana ma, sotto la cenere, covava il fuoco.
Fuoco che poteva divampare qualche anno dopo, 1976, in Coppa Davis. Ma la vittoria di Santiago di quella clamorosa squadra, di cui lo zar era capitano, lo spense sul nascere.
Fu lui, Nicola, a metterci la faccia in un indimenticabile dibattito televisivo con i politici dell’epoca sull’opportunità di andare o no in Cile, soggiogato dalla dittatura di Pinochet. Quella volta lo zar e il figlio di Ascenzietto si trovarono, per l’unica volta, dalla stessa parte della barricata, e fu la storia.
Ma i giocatori non amavano Nicola, il suo ego, la sua convinzione di essere ancora e per sempre il nume tutelare del tennis italiano. Così lo esautorarono per fare spazio a Bitti Bergamo, amico di Panatta, e la storia finì.
Ma non finì Nicola, sempre più elegante, sempre più bianco, sempre più zar nel suo dorato eremo romano. Gli hanno dedicato in vita, caso unico, un campo (bellissimo) del Foro Italico, ornato di statue. La stampa lo ha eletto a grande censore, a vecchio saggio, e lui non ha mai fatto mancare una polemica, un titolo al veleno.
Non ha mai amato Sinner, il ragazzo bionico che ha avuto l’ardire di battere il suo record di Slam e che, come atteggiamento verso lo sport e la vita, è esattamente agli antipodi di cosa Nicola è stato. Non le ha mandate a dire e il tribunale dei social, novello Sinedrio, lo ha condannato.
Lui, dall’eremo, ha sempre accolto l’odio degli adepti di Jannik con un sorriso beffardo. Lui è stato lo zar dei gesti bianchi, il più grande di un tennis che grande non era. Gli bastava.
Stanotte la Signora dalla nera veste lo ha chiamato a rete con una smorzata perfetta. Lui, Nicola, non ha nemmeno fatto finta di andarla a prendere, quella smorzata. Una fatica inutile, avrebbe detto sorridendo.