AMORI, MULTE, SPERANZE: IL NOSTRO AUTOBUS

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Erano bellissimi. Gialli, soprattutto, o arancioni, di un colore così acceso, gaio, che ti sembrava sorridere anche sotto la pioggia. Davanti, sopra l’enorme parabrezza solcato da giganteschi tergicristalli, il rudimentalissimo display azionato a mano: la tecnologia digitale, negli anni Settanta, era ancora nella mente degli angeli, ed era lui, il conducente, a cambiare direttamente il numero e la destinazione dell’autobus.

Il conducente, già. Una sorta di figura mitologica. Un cartello ammoniva di non parlare con lui. Intoccabile, inarrivabile. Come se rivolgergli la parola, per noi ragazzi, fosse stata una lesa maestà. Qualche coraggioso azzardava: mi scusi, questo ferma in via….e lui, la creatura mitologica, si limitava a un cenno di conferma e di diniego, solo con un gesto delle dita. Aspettava soltanto il capolinea per consumare il panino incartato nel portaoggetti o leggersi il giornale posato lì, in bella vista.
Erano bellissimi, gli autobus della nostra adolescenza. Con quei sedili durissimi, di legno chiaro, lucidi, lisci, sormontati da una lunga maniglia per evitare contraccolpi in caso (frequentissimo) di frenate brusche. Il pavimento, nero, di gomma, violentato, macchiato, sporcato da centinaia di scarpe fangose, bagnate. I finestrini lunghi e alti, appannati d’inverno, flagellati dalla pioggia, che si aprivano appena d’estate, sempre troppo poco, per far entrare un’idea di brezza, di libeccio, di frescura.

L’autobus fendeva il traffico delle 126, delle 127 della gente comune. Accelerava sul lungomare, si impantanava come un soldato nella palude Vietcong per le strette strade del centro. Frenate, accelerate, frenate. Noi ragazzi, in mano i libri con la cinghia, fasciati nel bomber appena comprato al mercatino americano, attenti a non sporcare le Timberland intonse, ci scolpivamo bicipiti e addominali per mantenere l’equilibrio. Aspettando che alla solita fermata, quella del cuore, salisse quella ragazzina dagli occhi belli, che a volte incrociavano i tuoi azionando una tempesta che solo tu sapevi.

A scuola, in città per vedere gli amici, sempre in autobus: il motorino era roba da primavera-estate, o da pomeriggio: al mattino comandava lui, l’autobus, il Signore in giallo o in arancione. E quel pitosforo, benedetto e maledetto, che invadeva le narici. “Giovane, è passato l’uno?”, era il tormentone.

a quell’ora, le otto del mattino, sull’autobus numero 1 salivano anche i pensionati e le signore dirette al mercato Centrale, le buste vuote in mano. Ma fino al Cantiere Orlando, oggi Porta a Mare, il mezzo restava praticamente vuoto. Ti potevi sedere senza sentirti crudele verso gli ottuagenari. Ma poi, l’inferno. Nel tratto tra la Bellana e piazza Grande arrivavano le truppe cammellate. Decine di ragazzi e ragazze, stipati come sardine. Contatti proibiti, come un derby Boca-River Plate. I più sfortunati restavano con i piedi o gli ombrelli incastrati nella porta posteriore. “Apre dietro?”, l’urlo disperato. In qualche modo, finalmente, approdavamo in piazza Cavour e poi in piazza Grande, liberati da quella pressione infernale. E c’era il problema del biglietto o dell’abbonamento: piccoli, troppo piccoli per non perderli di continuo, per non dimenticarli a casa. Il pericolo immanente era il controllore, anzi i controllori perchè viaggiavano in coppia. Impossibile non riconoscerli: borsello a tracolla e targhetta all’occhiello della giacca, aria truce da agenti della Stasi della fu Germania Est. Ci sembravano così, inutilmente cattivi, ma facevano soltanto il proprio mestiere. E cattivi dovevano essere, perché qualcuno, più di qualcuno, il biglietto non lo pagava. I passeggeri più rapidi si fiondavano giù in strada all’apertura delle porte, alla vista dei cerberi. Per chi restava intrappolato in fondo e non aveva biglietto, la sentenza era capitale. Dare il nome falso? Troppo rischioso. L’extrema ratio era “scusi, l’ho dimenticato a casa, non lo faccio più”, ma l’umiliazione bruciava sulla pelle per giorni. Verbale Atl a casa, gogna familiare, punizione.
L’autobus era tutto questo.

Trasportava condivisione, nuove conoscenze, simpatie e antipatie, amori presunti, nati, finiti. Sguardi restituiti o rifiutati. Trasportava, sobbalzando tra buche e frenate, la paura dell’interrogazione, la felicità di essere ragazzi, le farfalle nello stomaco, la bellezza del domani. Adesso in autobus viaggiano i miei figli, e non se ne lamentano. Se solo sapessero quanto invidio loro, stretti in fondo all’autobus, con il sottile timore del controllore, e il divieto di parlare al conducente. Anche la loro vita, adesso, è trasportata da quel signore in giallo o arancione, adesso vestito di bianco. Ma che il tempo non cambia, con tutto quel fascino di cose lontane, col pistosforo, benedetto e maledetto, nelle narici.