C’è un bel dibattito in queste ore sui mutui che le banche non concedono ai giovani

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Alcuni dati dicono che solo 1 su 5 viene erogato ad un giovane sotto i 35 anni.
Oggi il direttore dell’Associazione bancaria italiana Sabatini, in un’intervista a Repubblica, individua il problema non nei criteri di concessione adottati dalle banche ma nella mancanza di lavoro.

Gli risponde – a mio avviso giustamente – Tito Boeri che in certi casi i contratti a tempo determinato, o molte partite iva, di questi tempi hanno un valore di rischio decisamente minore rispetto al tempo indeterminato di chi lavora in piccole imprese o settori dove si va incontro a licenziamenti collettivi. Ma che nonostante ciò si vedono negare dalle banche qualsiasi possibilità di accedere al mutuo.
Io credo sia giustissimo incalzare il sistema bancario come fa Boeri e che sia altrettanto importante ragionare su come adeguare il mercato del lavoro. Ma ritengo che il tema sia più largo e riguardi il modo in cui interpretiamo il diritto all’abitare.

Mi spiego. Quando negli anni novanta furono inserite dosi massicce di flessibilità nel nostro mercato del lavoro, non fu ripensato contestualmente il sistema di welfare. E così quella flessibilità divenne precarietà. In quel momento cambiò il destino di milioni di giovani, che ormai giovani non sono nemmeno più.

Insicurezza, precarietà, impossibilità di immaginare e progettare la propria vita. Il tema casa va inserito in quest’ambito.
Un diritto fondamentale, quello all’abitare, negato nei fatti. Un diritto, che, ricordiamolo sempre quando facciamo discussioni di questo tipo, non è legato al possesso ma è un vero e proprio diritto sociale.

È per questo che rispondere a quella esigenza solo da un punto di vista delle dinamiche del mercato è sbagliato. Perché invece abbiamo di fronte una grande questione politica. E questo significa, ad esempio, ricominciare a investire in edilizia residenziale pubblica. Significa sostenere più e meglio chi va in affitto.
Significa penalizzare chi lascia immobili sfitti. Significa tante cose.
Ma soprattutto rimettere al centro dell’agenda il diritto all’abitare come diritto fondamentale degli uomini e delle donne, universalmente riconosciuto.

“Tanta gente senza casa, tante case senza gente”, diceva un vecchio volantino. La lotta per la casa ha definito il dna della sinistra, perché, al pari di altre, era storicamente lotta degli sfruttati. L’esigenza di farne un perno della nostra identità politica si è risolta negli anni? Direi di no.

Perché oggi questo tema riguarda molti: non solo chi vive in condizioni di maggiore povertà, ma pezzi di ceto medio e almeno due generazioni di giovani per le quali la casa è stato e ancora è il principale problema. Ecco, la sinistra, che ha smesso su questo tema di costruire una visione, dovrebbe invece tornare a parlarne seriamente.

Ricostruire un partito popolare passa attraverso battaglie popolari, proprio come questa.