Gianni Berengo Gardin, uno dei più grandi fotografi italiani del Novecento, che con il suo sguardo ha attraversato sette decenni di storia, fissando nel bianco e nero la memoria visiva del Paese, è morto all’età di 94 anni a Genova.
Era nato a Santa Margherita Ligure (Genova) il 10 ottobre 1930, ma considerava Venezia la sua vera città natale: lì aveva studiato e mosso i primi passi con la macchina fotografica, che non avrebbe mai più lasciato.
Con oltre due milioni di negativi, Berengo Gardin è stato molto più di un fotografo: è stato un testimone etico, un poeta della realtà, un osservatore discreto ma instancabile dell’Italia che cambia.
Berengo Gardin amava definirsi “un artigiano”, e non un artista. Detestava l’idea di fotografia come forma d’arte estetizzante, preferendo sempre l’impegno civile alla ricerca di uno stile personale: “Il mio lavoro non è artistico, ma sociale e civile. Non voglio interpretare, voglio raccontare”.
Il suo sguardo si è sempre posato sull’uomo: nei suoi gesti quotidiani, nel lavoro, nei momenti di intimità e nei luoghi del disagio. Dall’Italia contadina del dopoguerra agli slanci della modernizzazione, dalla vita degli zingari all’universo industriale, dalle periferie urbane ai manicomi, campo, quest’ultimo, in cui firmò il reportage più potente della sua carriera.


