Napolitano. E napoletano, anzi napoletanissimo. Partenopeo fino al midollo, appartenente a quella ricca borghesia illuminata che, agli albori del Fascismo, flirtava con la nobiltà cittadina (la madre apparteneva a una nobile famiglia piemontese) e che vide, tra i suoi massimi esponenti, Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, tutti suoi compagni di liceo all’Umberto I di Napoli, dov’era nato il 29 giugno 1925
Giorgio Napolitano, predecessore di Sergio Mattarella e presidente emerito, senatore a vita dal 2015, si è spento oggi a Roma all’età di 98 anni. È stato il presidente della Repubblica più longevo (nel 2021 aveva superato Carlo Azeglio Ciampi, morto a 95 anni nel 2016). Ma, soprattutto, è stato il primo ex comunista ad ascendere al Colle più alto, il Quirinale, nonché primo capo dello Stato italiano ad essere rieletto per un secondo mandato: nel 2013, mentre il Parlamento si arrovellava tra candidature nate morte e i 101 franchi tiratori che impallinarono Romano Prodi, lui accettò pur controvoglia di essere rieletto, salvo precisare che si trattava di un “mandato a tempo” e che i deputati e senatori, con quello spettacolo, avevano dato una pessima immagine di sé e delle istituzioni repubblicane.
E Napolitano, nel discorso di “rielezione”, non mancò con la voce rotta dalla commozione di bacchettare i parlamentari, denunciando il pericoloso “avvitarsi del Parlamento in seduta comune nell’inconcludenza, nella impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell’elezione del capo dello Stato”. Napolitano, quindi, ritenne “di non poter declinare” l’appello a farsi rieleggere, “per quanto potesse costarmi l’accoglierlo, mosso da un senso antico e radicato di identificazione con le sorti del Paese”.



