Allegorie di naufragi: il calcio

0
2

Poche cose, in questo torno di tempo, attirano in modo stabile l’attenzione e suscitano la passione degli italiani. Fra queste, il calcio occupa sicuramente un posto di primo piano.

Guardando, ma senza troppa passione per la verità, la partita nella quale la nostra Nazionale è stata allegramente strapazzata dalla Norvegia con il quasi tennistico punteggio di 4 a 1, mi è balenata una certezza: il calcio siamo tutti noi.

Il nostro calcio è noioso: tutte le squadre giocano allo stesso modo, con prevedibili difese a zona, tatticismi esasperati e, più che altro, con una sconfortante mancanza di fantasia, estro, allegria. La palla gira sempre lateralmente, i passaggi sono corti nel timore, fondato, di non poter fare giocate diverse, con modesti figuranti incapaci di pedate realmente efficaci. Le marcature sono asfissianti, spesso violente, con la benevola tolleranza di arbitraggi ligi, evidentemente, a precise superiori direttive.

Quelle rare volte in cui è dato di vedere un guizzo diverso, tutta la cialtronesca massa di commentatori che campa grazie a questo baraccone rilascia peana di meraviglie, esplora le radici del fenomeno di turno, azzarda paragoni con i miti del passato.

Eppure basterebbe vedere come giocano gli altri, con che leggerezza la Norvegia ci ha asfaltati nel momento in cui ha deciso di fare sul serio, oppure guardare le partite degli altri campionati europei, Spagna e Inghilterra in testa.

Quasi mai si apprezzano, da noi, passaggi filtranti o dribbling fulminanti in area: tutte cose che, evidentemente, riescono facili ad altre latitudini, anche quasi polari, come ci ha insegnato la partita in questione.

La verità è che il nostro calcio riflette il Paese. Un Paese seduto, vecchio, impaurito dopo decenni di incertezza sapientemente inoculata da politiche all’insegna del noto motto: “lo vogliono i mercati”.

Il nostro campionato è pieno di stranieri. Nella Serie A le squadre più forti esibiscono al massimo 3 o 4 connazionali. Gli altri sono di altri Paesi. Nelle squadre di minore capacità economica ci sono moltissimi africani che non costano niente e vengono qui a tirare la carretta come tanti altri immigrati, più sfortunati perché privi di abilità pedatorie.

Non si investe sui vivai, non si programma a lunga scadenza. Si campa sui diritti televisivi e si attuano operazioni di maquillage contabile, spesso in dispregio della legalità.

Il calcio siamo noi: è la classe politica complessiva che ci governa e che non riusciamo a buttare a mare. Anche perché siamo orfani di una teoria che ci permetta di iniziare a srotolare la matassa dei guai che ci avvolgono, che ci faccia trovare il bandolo.

Un grande sonno ci avvolge, ma la verità sta davanti a noi e ci dice che bisognerebbe cominciare a capire che la politica è divisione e che non si può avere la presunzione di poter rappresentare tutti contemporaneamente. Specie quando, come in Italia, le sperequazioni e i privilegi ascendono a un livello quasi insopportabile e sembrano dover ancora aumentare.

Tutti, o quasi tutti, aspirano a conquistare il centro, il ceto medio.

Nel calcio, il centrocampo è certamente rilevante. Ovviamente non è tutto e non basta per fare goal.

Specialmente se ti manca il 50% di coloro che dovrebbero partecipare al gioco.

Ma, nonostante tale ovvietà, tutti noi sembriamo aspirare solo a una vita da mediani.

Dario Raffone