AMORI, DELUSIONI, LAVORO, SOGNI QUELL’AMICO GRIGIO CON LA ROTELLA

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Era grigio, poteva diventare arcobaleno in un secondo. Poteva issarti su, sino al tuo piccolo paradiso di ragazzino. O poteva farti sprofondare in quel grigio assoluto. Estasi o tormento, lungo quel filo attorcigliato, che come un sinuoso serpente si srotolava sotto il mobile, arrivando al porto sicuro della presa.

Amori veri o presunti, corteggiamenti impacciati, brutte figure da operetta, risate con gli amici, le prime segrete verità. Scocciatori e amici, mio padre medico che trasaliva a ogni squillo, poteva essere la paziente anziana che reclamava l’inutile visita a casa, o il cugino che non vedevi mai e mai avresti voluto vedere.
Il telefono della Sip, quello a rotella, leggendario, nato nell’aprile 1962, qualche mese prima di me, caduto nell’oblìo della storia una ventina di anni dopo. Rumori che si sono appiccicati in qualche angolo della mente, che non ti lasciano, incastonati ormai nel tuo vissuto. Il rumore metallico della rotella: dovevi comporre i numeri uno alla volta, tac tac tac tac: a volte dimenticavi in quale spazio avevi infilato l’indice e dovevi ricominciare da zero, pena il mortificante “mi scusi, ho sbagliato numero”.

L’improvvisa comparsa del suono che indicava lo squillo dall’altra parte. Il segnale dell’occupato, quei trilli ravvicinati che finivi sempre con il maledire, perché rinviavano un desiderio o prolungavano un supplizio. Quella cornetta leggera, che diventava insopportabilmente pesante con il prolungarsi della chiamata, al punto che dovevi infilarla, quella cornetta, tra mento e spalla, come avevi visto al cinema da quell’attore che ti piaceva, forse un giornalista, forse un detective. Che con il miglior sorriso piacione componeva il numero usando la matita.
Il grigio padrone delle tue speranze e delle tue illusioni era qualcuno, nelle case in bianco e nero degli anni Settanta. Aveva un mobile dedicato, tutto suo: il “mobile del telefono”, che spesso ospitava anche il cassetto delle chiavi. Eri costretto a stare lì, a giocarti le sue carte all’aperto, sotto gli sguardi di genitori e fratelli: passavano, magari ascoltavano, ti prendevano in giro se la telefonata era destinata a una ragazza. Nessuna privacy: questa era la regola del telefono. Almeno finchè, anni dopo, un mai abbastanza ringraziato genio della tecnologia non sdoganò il duplex, la derivazione nelle altre stanze. L’onore era salvo.
Il telefono grigio della Sip, classe 1962, ti aiutava a crescere. A saltare senza rete. A rischiare. “Signora buonasera, c’è mica…”, era la formula di cortesia, che oggi nei tempi della connessione globale sembra una commedia di Eduardo. Il coefficiente di difficoltà saliva vertiginosamente quando dovevi chiamare una ragazza. Imbarazzi, titubanza nel comporre il numero.
Se rispondeva il fratello o la mamma, te la cavavi. “Sei Giorgio? Adesso vedo se c’è”. Roulette russa.

Se rispondeva il padre, era come la finale dei Mondiali 1970 col Brasile: ti asfaltava. Magari, codardo, riattaccavi. Se rispondeva direttamente lei, giocavi la tua partita: anche se dall’altra parte la ragazzina aveva lo stesso problema: tutti potevano ascoltarla.
Quell’apparecchio, che oggi sembra il fuoco e la pietra dell’uomo primitivo, ha scandito i tempi della mia vita, e di quella di tutti quelli che oggi scoprono fili d’argento nei loro capelli. Si è accovacciato tra il mento e la spalla per anni, sancendo vittorie e sconfitte. Ha testimoniato le mie prime acerbe cronache, quando dettavo l’articolo dai posti più sperduti al mio giornale. Sorrisi, lacrime, sciocchezze, profondità lungo quel filo accartocciato, quella rotella con i numeri, quella cornetta pesante e leggera. E, infine, quel rumore secco, quel “clac” quando riattaccavi, schiacciando i due pulsantini bianchi. Clac: paradiso o inferno, lungo quel filo sinuoso come un serpente.

Giorgio Billeri