Ogni sera in un edifico senza finestre di Tan Son Nhut, noto come Macv (Military Assistence Command Vietnam), ufficiali superiori sedevano ad un lungo tavolo lucido di fronte a un leggio affiancato dalla bandiera degli Stati Uniti e da due carte che coprivano tutta la parete. Ascoltavano la relazione di un maggiore che ripeteva ciò che i loro predecessori avevano già sentito innumerevoli volte: che i punti azzurri sulla mappa in plastica a rilievo del Vietnam del Sud, ovvero le aeree controllate dagli americani e dagli alleati, erano sempre più “prevalenti”, e che i tratti in rosa, ovvero le aree controllate delle forze comuniste, si stavano ritirando verso le zone previste per essere eliminate “definitivamente”.
Gli ufficiali addestrati per tener d’occhio e informare “correttamente” i giornalisti lo ripetevano mostrando repliche di quella carta. Era il loro compito. In fondo, la propaganda in guerra cosa è, se non l’applicazione del detto “se avessimo fiducia in quello che diciamo pari a un granello di senape riusciremo a spostare le montagne”? Ma alcuni di loro davvero esibivano una fede quasi evangelica nella santità della crociata americana e in quello che la carta sembrava provare oltre ogni dubbio. I vietcong esistevano ancora, inutile negarlo, ma quelle aree sempre più grandi erano pacificate: “La gente adesso sa che “Charlie” è il loro nemico, ecco abbiamo lasciato i vietcong a secco…’’. La solita, dura, guerra, eserciti che vincono, altri che perdono, vittorie che non risolvono nulla, sconfitte che induriscono alla resistenza.
Adesso che Netanyahu ha imboccato la strada di quello che potrebbe diventare il suo Vietnam vale la pena di ricapitolare la grande strategia con cui il generale William Westmoreland ogni sera cullava di rassicuranti certezze i sonni inquieti del presidente Usa Lyndon Johnson che aspettava la vittoria… È questione di settimane, forse di giorni, presidente… I vietcong son tutti morti… Erano le cosiddette “zone di fuoco libero’’.
Le guerre (solo le guerre?) non insegnano mai nulla e su quelle genialità tattiche di contro guerriglia è calato un meritato silenzio. Chi perde ha sempre torto. Eppure, è quanto più di mezzo secolo dopo Netanyahu e i suoi generali si apprestano a scatenare come ultima carta per agguantare la sfuggente vittoria nella Striscia di Gaza: portare via gli abitanti dalle rovine , riunirli in “villaggi protetti”. Come avrebbe detto il presidente Mao, “toglier l’acqua al pesce”. Che sarebbe Hamas. Stanare, sopra e sotto terra, e uccidere i cattivi che non potrebbero più mescolarsi e sfruttare la popolazione, sarebbe più agevole. Semplice no?
In fondo, in guerra non ci sono innocenti, solo collaborazionisti, simpatizzanti, potenziali terroristi, testimoni e intralci umani che impicciano le belle geometrie dei generali. Anche il generale Rodolfo Graziani, implacabile “pacificatore” della Libia, aveva applicato lo stesso principio. Nella Sirte (Libia) ancora lo ricordano. Ci sono similitudini che allarmano, assai più dei dubbi, un po’ ipocriti, del comandante dell’esercito israeliano che fa fronda, mugugna educatamente, avverte sui rischi. Ma poi si adegua agli ordini. Ricorda il viscido Badoglio di fronte all’annuncio della campagna di Grecia.
Domenico Quirico


