Il Paese della grande muraglia ha alzato un muro enorme, in termini di capacità produttiva, fra sé e gli altri Stati e Continenti del mondo che pure vantano storicamente tradizioni di fabbricazione automobilistica e veicolistica molto più consolidate
La corsa del Dragone ha avuto inizio, accelerando poi sempre di più, tra la fine degli anni Novanta del Novecento e gli inizi del Duemila, a seguito del parere favorevole che era stato espresso dall’America di Bill Clinton e dall’Europa di Romano Prodi per un ingresso di Pechino nell’organizzazione mondiale del commercio occidentale. Le due super potenze atlantiche erano convinte che, in tal modo, i benefici avrebbero di gran lunga superato i rischi, mettendo a disposizione dei produttori e degli esportatori di USA e UE un mercato aggiuntivo di oltre un miliardo di consumatori e compratori.
Le statistiche, susseguitesi nel corso degli ultimi quattro lustri, spiegano invece una realtà diversa, nella quale in molti settori del largo consumo la bilancia commerciale pende in misura decisa a favore del gigante asiatico, divenuto nello stesso tempo insidioso anche da un altro punto di vista, quello della capacità di sottoscrizione di titoli del debito pubblico emessi dalle Nazioni occidentali e che Pechino acquista reinvestendo quote massicce dei proventi delle proprie esportazioni.
Adesso, dai prodotti industriali a più largo consumo, il primato cinese tende a spostarsi verso i segmenti dei beni più durevoli come appunto è quello delle automobili e dei veicoli commerciali. Fino a vent’anni fa, la Cina era totalmente fuori dai radar delle potenze produttrici dei veicoli civili e commerciali a quattro ruote, fra le quali spiccavano in maniera incontrastata gli USA e il Giappone.
Adesso il Sol Levante è diventato un po’ calante, i dati a consuntivo del 2022 parlano di un Dragone assurto a fabbrica mondiale delle auto, con 23,8 milioni di vetture realizzate e altri 3,1 milioni di mezzi per uso commerciale.
Per tracciare un metro di paragone, l’Unione Europea a 27 Paesi, nello stesso anno, ha prodotto 11,2 milioni di automobili, e gli Stati Uniti d’America 10 milioni di “passenger car”. Il che significa che, senza considerare il segmento dei mezzi commerciali, rimanendo solo su quello delle autovetture familiari il Gigante dell’estremo Oriente ha superato la somma dei due continenti occidentali del primo mondo.
Da qui si può bene comprendere la preoccupazione del governo Italiano di tornare a contare nel club dei principali Paesi produttori seriali di vetture, club del quale il nostro Paese non fa più parte da diversi lustri, poiché crollato a 473.000 veicoli fabbricati annualmente e molto lontani dai fasti del milione e mezzo netto di automobili di vent’anni fa, alle quali si aggiungeva una produzione di 290.000 veicoli commerciali nell’arco del calendario: numeri che, ancora nel 1999, ci collocavano al decimo posto nella classifica mondiale delle Nazioni-fabbrica, mentre oggi attendiamo che un accordo fra palazzo Chigi e Stellantis (ex Fiat), ci permetta di tornare almeno al milione annuo di vetture.
Un numero auspicato e nel quale il Piemonte, terra natia delle quattro ruote made in Italy con casa Agnelli, si candida a esprimere fino a un quinto della futura produzione nazionale, riattivando molte linee oggi dismesse nello storico stabilimento di Mirafiori e riportando la filiera complessiva della Fiat Panda all’ombra della Mole Antonelliana, obiettivo tutt’altro che scontato e che sarà al centro di negoziati molto intensi fra Governo, ex Fiat e Regione Piemonte.
Nel frattempo, però, mentre Roma discute, la “Sagunto” del mercato automobilistico nostrano rischia di venire espugnata: un recente sondaggio, svolto dalla società di consulenza Bain and Company, indica che oramai un italiano su cinque starebbe pensando di rivolgersi ai marchi auto cinesi per rinnovare il proprio garage.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




