
Il Garden ha quell’odore di legno consumato e gloria antica, e in mezzo a tutto questo c’è un lungo magro che sembra capitato lì per caso
Cammina senza rumore, si muove senza fretta. Eppure, appena tocca un pallone, cambia tutto. Kevin McHale non giocava per mostrare qualcosa. Giocava come se il canestro fosse una questione privata tra lui e la fisica.
Nessuna esplosività da highlights, nessun salto da poster: solo un repertorio infinito di mosse che sembravano inventate al momento. Il piede perno come bussola, le finte che mandavano al bar avversari molto più atletici di lui. Ogni volta che riceveva in post, anche i tifosi avversari facevano mezzo respiro in meno: stava arrivando qualcosa di inevitabile.
Larry Bird, che la diplomazia non sapeva nemmeno dove stesse di casa, lo disse con la sua solita schiettezza: “Se ti do la palla dieci volte, segni dieci volte. E non ho idea di come diavolo ci riesci.”
E aveva ragione. Perché McHale non era solo un attaccante straordinario. Aveva braccia che sembravano appartenere a due giocatori diversi, piazzate su un corpo che non ti aspettavi di trovare lì sotto. Tre volte nel miglior quintetto difensivo NBA, e quella stagione irreale: 60% dal campo, 80% ai liberi. Una combinazione che ancora oggi sembra una frase detta per esagerare.
Fuori dal campo era il tipo che faceva ridere tutti. Dentro, diventava un tipo di giocatore che non esiste più: preciso, imprevedibile, feroce senza alzare la voce. Con Parish e Bird formava una delle triadi più complete e silenziosamente dominanti della storia.
Kevin McHale è stato tutto questo e qualcos’altro ancora. Un uomo che, in mezzo al rumore del basket più duro di sempre, trovava un modo tutto suo di danzare.


