Al contrario qualcosa di inaudito, almeno per la nostra democrazia, è accaduto l’altro ieri a Palazzo Chigi
Per due ore leader politici normalmente impegnati esclusivamente ad attaccarsi e accusarsi di essere alternativamente, fascisti o traditori della patria, hanno pacatamente ragionato di una misura complessa, usando dati, letteratura scientifica e concetti giuridici.
Al netto del teatrino delle dichiarazioni conclusive alla stampa, in cui ognuno ha parlato ai suoi elettori, a quel tavolo ha fatto per la prima volta da molto tempo irruzione la realtà e la politica come mezzo per cambiarla. È un risultato di enorme portata che non va sciupato.
La Presidente del Consiglio ha aperto a un dialogo sulla questione salariale e sul salario minimo con un intervento serio e circostanziato in cui ha espresso dubbi di contenuto sulla nostra misura, a cui tutti i leader delle opposizioni hanno risposto puntualmente e pacatamente.
Fratoianni, Conte, Magi e Schlein non hanno divagato o rivendicato, ma chiarito in modo convincente le ragioni del salario minimo. Dall’altro lato, la proposta di lavorare insieme per sessanta giorni cercando un’intesa con il supporto del Cnel (visto che abbiamo deciso di tenercelo facciamolo lavorare), senza levare pregiudizialmente dal tavolo quanto fatto dalle opposizioni sul salario minimo, è ragionevole.
Ben difficilmente Meloni avrebbe potuto accoglierci dicendo: «Dove devo firmare la vostra proposta». E se invece, come chiesto da alcuni convenuti, avesse fatto una proposta contraria alla nostra, il filo del dialogo si sarebbe interrotto immediatamente.
Continueremo a batterci, insieme alle altre opposizioni, per il salario minimo legale, unito all’allargamento della validità dei contratti comparativamente maggiormente rappresentativi. La nostra legge rafforza e non indebolisce la contrattazione nazionale.
Come ho spiegato ieri alla Presidente Meloni non stiamo inserendo nell’ordinamento italiano una variabile sconosciuta ma un istituto presente da tantissimi anni in quasi tutti i Paesi avanzati.
Il salario minimo legale non è tuttavia la panacea di ogni problema salariale. E su questo anche le opposizioni si sono dette d’accordo. Non è dunque sbagliato inserirlo nel contesto di una politica salariale di più ampio respiro, se il governo dimostrerà di volerla effettivamente portare avanti rapidamente.
Maggioranza e opposizioni hanno ora una scelta: possono richiudersi nelle rispettive trincee e tornare alla guerra di posizione che ha segnato la politica italiana negli ultimi trent’anni, causando il declino del Paese, o possono decidere di incontrarsi nella «terra di nessuno» rappresentata dal merito delle questioni e siglare una tregua per il bene dei lavoratori italiani. Le possibilità non sono molte ma esistono.
Forte sarà la spinta a rimanere «nell’area di conforto» del conflitto democratico permanente. Non sarebbe però un buon affare per nessuno. La credibilità di una proposta di governo — quella della destra, della sinistra o la nostra — non può prescindere dal dimostrare di avere una cultura di governo.
Molto dipenderà anche dai media. Se tiferanno per una rottura, esaltando le differenze anche quando inesistenti, o interpretando alla luce del nostro conflittuale passato ogni normale confronto, allora sarà davvero difficile arrivare ad un risultato. Se invece ammetteranno la possibilità che, per una volta, il registro possa davvero cambiare e valuteranno i fatti, daranno un contributo determinante a scrivere una pagina importante per il nostro Paese all’insegna della maturità democratica.
Per quanto ci riguarda, la nostra missione, come partito riformista, è lo scardinamento di questo sistema malato. Sappiamo che ciò potrà accadere solo nelle urne e non ai tavoli di governo. Ma erano più di trent’anni che opposizioni e governo non si incontravano a un tavolo di lavoro operativo, fuori dai rituali del Parlamento. Non è poca cosa. Cerchiamo di non buttare via tutto.


