Nonostante l’assoluta obiettività delle analisi con cui i Governatori centrali della zona Euro hanno certificato la riconducibilità di una quota dell’alta inflazione agli elevati profitti delle società operanti in diversi settori energetici, finanziari e distributivi, il livello politico istituzionale rimane silente anche di fronte a quello che si annuncia oggi come l’ennesimo rincaro del tasso di riferimento da parte della BCE di Christine Lagarde
I tassi nella zona di vigenza della moneta unica sono così destinati a salire al 3,75 per cento e a raggiungere pericolosamente la soglia del 4, impensabile fino a un anno fa.
La ragione di questo è molto semplice: l’inflazione strutturale di base, l’indice “core” che viene calcolato al netto delle oscillazioni dei listini delle materie prime energetiche e agricole, non accenna a calare, sintomo della circostanza che oramai gli aumenti della prima fase post pandemica e bellica – connessi cioè rispettivamente alla riapertura delle economie e allo scoppio della guerra russa in Ucraina – si sono insinuati in misura non temporanea ma al contrario irreversibile in tutti gli ambiti merceologici del paniere tipo delle famiglie medie.
Pertanto, anche una diminuzione delle quotazioni degli approvvigionamenti energetici e dei fattori produttivi in agricoltura non determina un allineamento verso il basso dei prezzi finali di tutta una serie di beni e di servizi.
Gli osservatori e studiosi della BCE e delle Banche centrali nazionali hanno ricondotto tale assunto, facilmente rilevabile nella spesa domestica giornaliera, alla particolare struttura acquisita, nell’ultimo periodo, dalla voce dei profitti di complessivi settori aziendali, rispetto ai quali a nulla sono valsi gli spuntati interventi della Commissione Von der Leyen e dei singoli Governi nazionali – quello italiano compreso – per attuare politiche distributive attraverso una tassazione temporanea e straordinaria della quota in eccedenza degli utili accertati negli ambiti maggiormente beneficiati dalla fortissima rivalutazione dei fattori produttivi importati e immessi nella UE.
Cosicché, ancora per una volta, e probabilmente fino a che non si assisterà nuovamente a una normalizzazione al ribasso dell’inflazione “core”, non prima cioè del primo semestre del prossimo anno, la prospettiva è quella di dover mettere in conto una ridda di rincari ulteriori destinati a comprimere ulteriormente la quantità di moneta in circolazione – e corrispondente ai minori crediti bancari alle PMI – senza però alcun effetto di sostanza sulla componente profittevole del perdurante sostenuto livello generale dei prezzi.
Su quest’ultimo punto, è necessario un balzo qualitativo dell’azione politica di Governo, tanto a Bruxelles quanto a Roma, attraverso provvedimenti che portino a rafforzare la dote dei fondi di garanzia e di a assicurazione pubblica e a introdurre – anticipando la riforma fiscale dell’IRPEF – modalità per consentire in via momentanea e straordinaria, fino a tutto il 2024, il recupero dell’inflazione sui redditi familiari tramite deduzione o detrazione delle spese connesse agli acquisti di beni e servizi inclusi nel paniere ISTAT, compresi i mutui prima casa e i canoni di locazione abitativa.
Diversamente, una scelta orientata ai soli bonus pauperistici, basati sul criterio ISEE, rischia di riproporsi in tutto il proprio essere fallimentare senza scalfire il crescente disagio sociale in atto.
Sullo sfondo di un debito pubblico che gli analisti, con riferimento all’Italia, quantificano già fin da adesso in predicato di raggiungere una consistenza pari a 3300 miliardi di euro entro il 2025, con una crescita del costo degli interessi passivi del 21 per cento che nessun tasso di ripresa economica reale riuscirà mai a ripagare.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




