Ieri mattina ho ricevuto sul cellulare un messaggino allarmato di un caro amico: Vittorio Feltri scrive su “Libero” un pezzo che ti riguarda
Che diavolo avrò fatto mai, rimuginavo, mentre mi affannavo a cercare nelle poche edicole aperte un copia del raro e prezioso manufatto (che leggo soltanto quando viene deposto sulla mia scrivania al “Fatto”, naturalmente gratis). Poi ho avuto un’illuminazione: non sarà per quel pezzo a mia firma uscito sabato su “Millennium”, dedicato a un incontro con la famiglia Angelucci quando ero direttore de l’“Unità”? Ma dai, mi sono risposto, Vittorione non è certo uno di bocca buona, lui che ha prestato i suoi servigi (ben ripagato s’intende) presso casa Berlusconi, vuoi che si metta a disposizione della famiglia Angelucci (con tutto il rispetto) soltanto perché gli versano un ricco stipendio ogni 27 del mese?
E, invece, quando ho letto mi sono dovuto, purtroppo, ricredere. C’era una doglianza per il titolo del mio pezzo a proposito delle lenti scure indossate dagli Angelucci nel suddetto incontro. Un particolare di cronaca non particolarmente offensivo. E qui levo la mia protesta contro la suscettibilità padronale: una penna sopraffina come quella di Feltri dovrebbe essere scomodata per ben altro, e che diamine! Devo riconoscere che nello svolgimento delle sue mansioni Vittorio ha usato parole cortesi di cui lo ringrazio.
Quando poi scrive che sono stato “scorretto” nel riferire di una “chiacchierata tra amici a distanza di anni” perché “in certi casi un gentiluomo tace, non rinvanga il passato per fare il bullo al bar”, come si dice prendo e porto a casa. Soprattutto quando la lezione di stile mi viene impartita dal gentiluomo autore del tweet diramato dopo la strage di Cutro: l’indimenticabile “partire è un po’ morire”.
Infine, quando scrive che lui ha fatto “meglio di me” perché “ha sgobbato di più” ha ragione da vendere. Io invece continuerò a non fare una mazza e a darmi alla bella vita convinto che nessuno avrà qualcosa da ridire, o da pretendere, per il semplice motivo, caro Feltri, che io, a differenza tua, sono il padrone di me stesso.
Antonio Padellarro



