CON LA FINE DEL SOSTEGNO AI REDDITI MEZZO MILIONE DI NUOVI POVERI

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Il dramma più acuto si registra nella macroregione del centro Italia, dove il 27 per cento della popolazione ha avuto almeno un contatto con i servizi socio assistenziali e con le organizzazioni caritatevoli

Non è dato sapere se la circostanza fosse più o meno prevedibile: però la venuta meno del sostegno pubblico ai redditi ha generato mezzo milione di nuovi poveri, numero che si evincerebbe dalle cifre del maggiore impegno messo in campo dalle organizzazioni socio assistenziali e dalle realtà del terzo settore impegnate nella somministrazione di generi e di servizi primari a chi non riesce più, con le sole proprie forze, a fronteggiare fabbisogni essenziali e, diremmo, esistenziali.

Non possiamo neanche stabilire se questo fosse un reale intento del Governo in carica, ma ci verrebbe da rispondere di no, dal momento che è interesse di qualsiasi esecutivo, sia esso di destra o di sinistra, evitare l’aggravarsi del netto calo della domanda interna e l’acuirsi dei problemi di insicurezza e di micro criminalità predatoria.

È un dato di fatto che, dopo l’onda lunga del piccolo boom turistico d’estate, che ha permesso di fare passare sottotraccia la sostanziale venuta meno dello strumento del reddito di cittadinanza per come era stato inteso alle origini, l’autunno oramai imminente farà emergere da sotto il tappeto del lavoro stagionale le conseguenze della fine di quella che, con molti difetti e non pochi abusi, è stata la sola esperienza di un aiuto universale al reddito degli inoccupati ovvero dei disoccupati non abbracciati dalle tradizionali forme di ammortizzatori sociali.

Abusi e malversazioni, del resto, rappresentano rischi calcolati di qualsiasi tipologia di intervento finanziario pubblico per ogni tipo di finalità, da quella principalmente assistenziale a quella viceversa più orientata al rilancio dello sviluppo economico. Se la prima è o è stata simboleggiata dal reddito di cittadinanza, la seconda è riassumibile nella parabola del superbonus edilizio al 110 per cento. Tanto che il Governo di centrodestra ha agito, subito dopo essersi insediato, per cancellare l’una e per imbrigliare l’altra, facendosi forte delle statistiche relative alle violazioni, dolose o gravemente colpose, accertate dagli enti erogatori, dalle autorità di vigilanza e dalla polizia giudiziaria.

Purtuttavia, se sbagliata o imperfetta era la soluzione, questo non vuol dire che inesistente fosse il problema. Così ecco che l’inoccupato o disoccupato incolpevole, stabilmente residente in Italia in casa d’affitto, si ritrova equiparato al finto senza lavoro vero evasore totale, talvolta trafficante eppure formalmente incensurato (poiché mai scoperto prima), titolare di auto di lusso o di costose bottiglie di spumante magnum e magari abitante all’estero ma, ciò nonostante, percettore del reddito di cittadinanza alla pari del primo. Il quale primo deve d’ora in avanti affrontare un ordine di sfratto – perché nel frattempo ha smesso pure di ricevere il contributo alla locazione abitativa – e cercare di farsi prendere in carico dal Comune di residenza ovvero di farsi indirizzare verso una struttura caritatevole per cercare di ottenere un minimo sostegno alimentare oppure dei medicinali prescritti ma non mutuabili.

Un termine di paragone viene spontaneo: in Italia esiste da moltissimo tempo una forma di sussidio, molto simile e per certi versi antesignana del rdc, che è la pensione sociale, erogata a soggetti ultra65enni, cittadini italiani o stranieri regolari, privi dei requisiti per l’anzianità contributiva o la vecchiaia e residenti nel nostro Paesi da almeno dieci anni. Ebbene, malgrado si sia lavorato nel tempo per rendere cogenti ed effettivamente rispettati tali criteri, ciclicamente l’ottimo lavoro coordinato di INPS e Guardia di finanza fa venire alla luce casi e situazioni di abuso messe in atto da persone che vengono scoperte a usufruire di tale trattamento stando beatamente all’estero o vantando agi patrimoniali che non darebbero loro il diritto a un simile beneficio addossato alla previdenza pubblica e alla fiscalità generale.

Ebbene, nessuno ha mai pensato di abolire la pensione sociale, proprio perché si ritiene, in definitiva, che ciascuno abbia diritto a una vecchiaia magari non massimamente serena ma neanche ostaggio dei morsi della fame.

Il fatto che si sia viceversa deciso di abolire seccamente il reddito di cittadinanza, anziché limitarsi a correggere le cause del suo abuso per circoscrivere il sostegno pubblico ai casi di disoccupazione o, per coloro alla ricerca del primo impiego, di inoccupazione incolpevole, la dice lunga sulla cultura di un Paese che dal secondo dopoguerra in poi è cresciuto nella cultura del posto fisso e nella convinzione che ampi settori dello Stato sociale potessero essere delegati ai genitori o ai nonni attraverso la destinazione spontanea di una quota di stipendio o di pensione ai figli o ai nipoti privi di reti protettive istituzionali.

Mentre la realtà vera è un’altra: proprio l’assenza di un ben regolamentato sostegno basilare al reddito personale fa sì che non siano adeguatamente controllabili i fenomeni di dispersione scolastica o di lavoro insicuro o sommerso, mentre le esperienze di Paesi come Stati Uniti d’America, Germania e Regno Unito insegnano che proprio attraverso erogazioni sussidiarie vincolate – e destinate a decadere in caso di più dinieghi successivi – vengono favorite le iscrizioni dei beneficiari a corsi e percorsi scolarizzanti e professionalizzanti, così come vengono incentivate le locazioni abitative regolari, mentre nel caso di assunzioni legali il sussidio viene convertito in un aiuto ad abbattere il costo aziendale del lavoro.

Senza considerare l’ulteriore circostanza che l’Italia può godere della presenza di un sano sistema di fondazioni filantropiche di origine bancaria che in taluni casi hanno istituito anche in passato, e con successo, capitoli di spesa complementari o supplementari all’intervento pubblico principale per coprire le spese di pendolarismo del lavoratore neoassunto o partecipante a un corso di formazione professionale al di fuori del Comune di residenza.

Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI