Non solo dagli Stati Uniti d’America, ma anche dalla Cina soffia l’Ira dovuta alle alte sovvenzioni statali al settore dei veicoli a batteria
Un report della compagnia assicurativa Allianz ha infatti evidenziato, da qui al 2030, una serie di forti rischi per le fabbriche automobilistiche del vecchio Continente, chiamate a fare i conti, in ogni senso, con le nuove direttive di Bruxelles le quali, pur non vietandone la produzione, renderanno progressivamente impossibile la vendita, in territorio UE, di auto a motore termico.
Uno scenario che ha allarmato in particolare l’Italia, già alle prese con un numero di veicoli prodotti annualmente al di sotto delle 500.000 unità, e che il Ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso vorrebbe riportare sulla soglia del milione, e che minaccia di preludere a un predominio commerciale da parte di Pechino, la cui filiera veicolistica – fondata sui princìpi di un capitalismo di Stato che solo di recente ha deciso di ridurre gli aiuti alle auto verdi – presenta un vantaggio competitivo non solo di generosità monetaria (destinata comunque a ridursi anche all’ombra della Grande muraglia) ma in parallelo tecnologico di almeno una quindicina di anni rispetto non soltanto ai competitor europei ma pure a quelli nord americani. I quali infatti hanno colto l’occasione degli effetti economici della guerra russa in Ucraina per varare, su iniziativa del Presidente federale Joe Biden, un Inflaction reduction act da diverse centinaia di miliardi di dollari per attrarre nel territorio a stelle e strisce interi distretti manifatturieri strategici in fuga da altre realtà del globo più costose o più insicure.
La compagnia Allianz ha quantificato, pertanto, che se da qui al 2030 i Cinesi riuscissero a collocare nell’Europa comunitaria un numero di veicoli in grado di raggiungere il milione e mezzo di unità esportate all’anno, ogni dodici mesi i conti economici delle nostre fabbriche di settore potrebbero segnare perdite consolidate per 7 miliardi, con la prospettiva di aggravare i risultati economici negativi fino a 24 miliardi, ossia lo 0,15 per cento del PIL dell’intera Unione, con ripercussioni ancora più disastrose in realtà come la Germania e la Slovacchia, le cui industrie tradizionali sono energivore in misura superiore alle medie generali.
Come ha sottolineato il presidente francese Emmanuel Macron, che non a caso è riuscito a imporre a Stellantis – di cui è socio pubblico – una produzione minima annuale di un milione di veicoli, l’Europa rischia di replicare nell’ambito della quattro ruote gli errori commessi con le politiche eccessivamente aperturiste in tema di pannelli solari e fotovoltaici, ragione per cui il Dragone asiatico ha finito con il rendersi indispensabile in molti campi della transizione ecologica.
Il rapporto della compagnia Allianz ha pertanto acceso un riflettore su una parola che sembrava tornata tabù ma invece, forse, non lo è mai stata: dazi. Quelli che alcuni Paesi, e ambienti della stessa Commissione di Bruxelles, a partire dalla direzione per la difesa commerciale facente capo al commissario per il mercato Thierry Breton, espressione del Governo di Parigi, vorrebbero introdurre e applicare ai prodotti automobilistici in arrivo dalla Grande muraglia, con l’obiettivo di renderli meno vantaggiosi e, nello stesso tempo, di finanziare una non indolore transizione eco industriale per i distretti nostrani delle quattro ruote che rischiano di partire sgonfie nella corsa competitiva con il colosso asiatico.
Un contesto, quello delle addizionali doganali, in cui la Francia potrebbe trovare uno dei più determinati alleati proprio nell’Italia di Meloni ma non anche nella Germania di Olaf Scholz, quest’ultimo troppo preoccupato per le reazioni di importanti compagnie tedesche titolari di forti interessi produttivi e commerciali in territorio cinese, sebbene pure dalle parti di Berlino cominci a serpeggiare qualche legittima e fondata paura di perdere quote sul mercato delle immatricolazioni interne e nel complessivo vecchio Continente.
In ogni caso, il quadro evolutivo sul da farsi in tema fiscale doganale sarà più chiaro entro la prima metà di luglio, allorquando gli uffici della direzione commerciale della Commissione UE, su mandato del reggente Breton, avranno concluso la propria istruttoria sui reali impatti della Cina nei confronti dell’auto made in Europe, aprendo all’opportunità o no di procedere a quella che gli stessi trattati istitutivi dell’Unione indicano come una estrema ratio da adottare, al più, non su base nazionale ma di concerto comunitario.
L’altra alternativa sarebbe quella, caldeggiata dai tedeschi in particolare, di accrescere, non a discapito della sicurezza dei cittadini del vecchio Continente in ambito di utilizzo di chip e di sicurezza delle applicazioni elettroniche digitali, le possibilità di partenariato commerciale e societario con Pechino, il più possibile in condizioni di reciprocità per integrare i nostri processi di produzione veicolare e rendere condivise le ricerche nel campo delle terre rare, in cambio dell’impegno cinese ad aprire il mercato asiatico facendo di esso un sistema molto più ricettivo di quanto non lo sia oggi nei confronti dei beni e dei servizi strumentali e finali realizzati e commercializzati dai Paesi dell’Unione.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




