Costi bassi, sfruttamento e illegalità: il Nord Italia scopre i caporali

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«Guardi lì, dove c’è quella fila di serre interminabili, non si distingue più la fine di un appezzamento da un altro», dice un contadino indicando una campagna, quella lombarda, che una volta era terra di cereali, ortaggi, riso. E invece oggi è diventata luogo di trasformazione dove si coltivano meloni e insalate che, lavate e imbustate, finiscono nei banchi frigo dei supermercati. Una macchina ben rodata che funziona tutto l’anno e lavora sette giorni su sette, senza rispettare la stagionalità, «grazie a lavoratori per la maggior parte stranieri, sfruttati e sottopagati, arruolati dai nuovi caporali» commenta Maria Panariello che per l’associazione Terra! ha curato il rapporto “Gli ingredienti del caporalato. Il caso del Nord Italia”. L’associazione – fondata nel 2008 e forte di un’autorevolezza conquistata negli anni (studia il fenomeno dal 2013) – ha redatto un’analisi puntuale che dimostra come anche nelle filiere più ricche e prestigiose del Settentrione italiano, contrariamente a quanto si pensi, si annidino forme di caporalato. Che non solo esistono: sono nuove, evolute e ben organizzate. Una rete di soggetti che «seppure legalizzati, operano fuori dalle regole a volte con la connivenza delle aziende, anche a causa di un vuoto pubblico di infrastrutture». E di un eccesso di burocratizzazione.

La «motivazione madre», si legge nello studio, è da ricercare a monte: nei sistemi di produzione agroindustriali e massivi che spingono a produrre sempre di più – e quindi hanno bisogno di tanta manodopera – a costi sempre più bassi. Racconta un imprenditore piemontese: «Il problema è che decide tutto la grande distribuzione, quindi io sono obbligato a vendere a meno del prezzo a cui produco». E a risparmiare sui costi sociali. Come lui tanti altri, in una catena che diventa terreno fertile per nuove forme di sfruttamento.

Cooperative “senza terra”

«Il caporale che recluta braccianti lungo la strada non esiste più, o almeno non solo», spiega Panariello. È stato soppiantato da strutture molto più sofisticate che agiscono in un modo talmente abile da non lasciare traccia. In Italia le stime parlano di 230mila lavoratori impiegati irregolarmente in agricoltura e, se nel Sud esiste una maggioranza di ore di lavoro nero, al Centro-Nord le cose non vanno meglio con un tasso di illegalità che oscilla tra il 20 e il 30 per cento. Qui regnano le “cooperative senza terra”: soggetti intermediari da sempre presenti in Piemonte e oggi molto diffusi in tutto il Settentrione, chiamati così perché privi di appezzamenti ma in grado di rispondere alle esigenze delle aziende con “un pacchetto completo”.

Sono queste, infatti, che preparano in brevissimo tempo, soprattutto nei periodi di picco stagionale, le squadre di lavoratori, si occupano del trasporto – ritenuto uno degli aspetti più problematici da risolvere – e di dare un tetto (poche volte dignitoso) a chi ne è sprovvisto. Non a caso i destinatari del nuovo caporalato non sono più cittadini comunitari – che magari hanno una famiglia e vanno in Paesi con salari più accettabili – ma persone che vengono perlopiù dall’Asia meridionale o dall’Africa subsahariana, prive di una rete sociale, più fragili e ricattabili.

Silvia Perdichizzi