DA 15 ANNI SENZA LA PIPA DEL VECIO BEARZOT

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Da quindici anni il Vecio fuma la sua pipa lassù. Fumo che solca le nuvole, ma, al momento, non sono arrivate lamentele dai pascoli celesti

Perchè Enzo Bearzot detto il Vecio, anche lassù, avrà già conquistato, rapito, convinto tutti.

Il furlan tutto d’un pezzo, con quel mento deciso e malinconico, gli occhi buoni da duro, il sorriso sempre a mezz’asta e la pipa, quel modo di parlare un poco strascicato, sibilante ma mai una volta sopra le righe, è stato chiamato nello spogliatoio eterno il 21 dicembre del 2010: aveva percorso 83 anni di una vita cristallina come acqua di fonte, tanto esemplare, corretta, retta da diventare quasi monotona.

Il Vecio è stato uno stopper forte, tutto muscoli friulani e irruenza, uomo contro uomo, clangore di ossa e caviglie, pallone o uomo, mano tesa per far rialzare l’avversario appena atterrato. Scelse, come per corrispondenza di amorosi sensi, per fatale attrazione, un club come il Torino che, negli anni 50, non si era ancora rialzato dall’Apocalisse di Superga. Su quella meravigliosa casacca granata appariva il primo sponsor della storia dell’italica pedata: una piccola T che riconduceva a Talmone, leggendaria fabbrica di cioccolato dell’Italia del boom. Una carriera da picchiatore gentile, da carceriere inflessibile di grandi attaccanti: un piccolo passaggio all’Inter, il Catania e poi lì, la Sirena che canta suadente, il tuo futuro è la panchina, caro Enzo.

Un futuro da ammaestratore di anime, da educatore, da motivatore: Bearzot allenatore non passerà alla storia per invenzioni, per alchimie tattiche. Enzo non era un visionario, ma un sensazionale gestore, come il papà che a fine mese si metteva a sedere in cucina con la calcolatrice e faceva tornare sempre i conti.

Umile, cosciente dei suoi mezzi si mise a studiare e capì, una volta asceso al soglio pontificio di commissario tecnico della nazionale, che lo schema da usare era quello della Juve del Trap, che vinceva tutto. Manuale Cencelli alla mano, scelse i “blocchi”, anzi il blocco, quello bianconero, che fondava le sue fortune su una generazione d’oro.

In Argentina, 1978, il Vecio con la sua Italietta espresse il calcio migliore. Affidò le chiavi a Gentile, al giovane e fatal Cabrini, al magistero calmo di Scirea, il suo ritratto in campo, in mezzo raschiò le ultime energie di Benetti, liberò la briglia di Antognoni, il ragazzo che giocava guardando le stelle.

Davanti Causio, Bettega e quel miracolo su gambe a nome Paolo Rossi, giovane stella del Perugia, quasi un corpo estraneo ma esiziale in area piccola. Arrivò quarto, ma moralmente vinse lui, e il manifesto fu quella combinazione vertiginosa palla a terra, Bettega-Rossi-Bettega, con la quale silenziammo i centomila di Buenos Aires.

Il Vecio, nei quattro anni successivi, lavorò nella sua bottega artigiana per creare il suo capolavoro. Aggiunse al gruppo Brunetto Conti, Graziani, Altobelli, Collovati, Marini, i migliori prodotti della serie A. Recuperò alla vita Paolorossi, aspettando la sua uscita dal pozzo nero del calcioscommesse e ignorando i tribuni della plebe che premevano per Pruzzo.

Disse a Zoff: tu sarai il mio discepolo. Impastò, creò, sfornò e servì. Quello che accadde in Spagna resta scritto non nella piccola storia del football, ma nella storia sociale e del costume d’Italia.

L’inizio sofferente, gli stenti in Galizia, le polemiche, il silenzio stampa, l’indimenticabile mattanza di argentini e brasiliani, le partite senza storia con Polonia e Germania, Bergomi il bambino coi baffi, Pertini, il suo non ci prendono più e il ritorno con la partita di scopone. Gli italiani a mollo nelle fontane nella gioia sfrenata, assoluta, liberatoria. Paolo che divenne Pablito nei secoli del secoli.

E lui, il Vecio, col sorriso meno accennato, per una volta, ad alzare quella scultura tutta d’oro che da uomo ti rende imperitura leggenda.

Il Vecio del bicchiere di rosso in trattoria, della pipa, della difesa e contropiede, del buonsenso da padre di famiglia da 15 anni siede, osserva e fuma lassù. Nessuno se n’è mai lamentato, nei pascoli celesti.

Giorgio Billeri