“Proprio quell’uomo per i neofascisti era un traditore, ‘un vile che era venuto meno alle promesse fatte, non aveva attivato un certo meccanismo dopo gli attentati decretando lo stato d’emergenza e mettendo in moto i militari che avrebbero saputo che sbocco dare alla crisi’, dirà Carlo Digilio. Nelle parole dell’ordinovista, Mariano Rumor non sarebbe stato ai patti”. Stefania Limiti “L’estate del golpe”, Chiarelettere
Gli anni di piombo sono una ferita che non potrà mai rimarginarsi anche se chi allora non era nato stenterà a capacitarsi di come sia stato possibile che la nostra democrazia sia riuscita a sopravvivere a una così lunga stagione di attentati, di stragi, di sangue. A tutto quel terrore c’è un prima che Stefania Limiti colloca nel breve arco di tempo, che va dalla strage di Piazza Fontana (1969) al ritorno di Aldo Moro al governo del Paese (1974). In mezzo, l’attentato alla Questura di Milano del 17 maggio 1973, durante la commemorazione del commissario Luigi Calabresi, assassinato da un commando dell’estrema sinistra, che causò quattro morti e oltre quaranta feriti.
Autore quel Gianfranco Bertoli che, secondo l’autrice, si rivelerà l’ultimo anello di una catena golpista che aveva come obiettivo (mancato) il ministro dell’Interno Rumor. Che andava punito per il suo presunto voltafaccia. “Fu un tempo di fuoco”, scrive Limiti in questo saggio fondamentale per comprendere i rischi che l’Italia ha corso, “attraversata da scosse golpiste non respinte da aree di potere che usarono il loro (brutale) anticomunismo per mantenere il potere stesso”.
Chi mercoledì scorso era alla libreria Libraccio di Roma dove “L’Estate del golpe” è stato presentato, ha potuto attingere direttamente a quel “prima”, grazie alla straordinaria memoria storica di Piera Amendola che, come responsabile (anche) dell’Archivio della commissione parlamentare sulla P2 a fianco di Tina Anselmi, ha elencato l’incredibile serie di manovre eversive contro le istituzioni repubblicane che le logge cosiddette deviate, manovrate dai Servizi altrettanto deviati, hanno messo in campo avvalendosi della fattiva collaborazione del crimine organizzato. È stata l’analisi del senatore Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo, a spiegare il “dopo”. Come “le stragi siano ancora tra noi in una storia del potere non conclusa”. Spiega Scarpinato che durante lo scorrere della storia ci sarà un evento che cambierà comunque l’assetto di questo sistema criminale integrato: la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Coloro che avevano organizzato le stragi, dopo quella data, non avevano più la protezione degli Stati Uniti.
I “grandi vecchi” temono l’avvento al governo della “gioiosa macchina da guerra”, cioè del centrosinistra guidato da Achille Occhetto, poiché temono si possa aprire una stagione di resa dei conti in cui con i posti nevralgici assegnati a fedeli servitori dello Stato – tra cui la Procura nazionale antimafia che avrebbe dovuto essere guidata da Giovanni Falcone – “tutti gli scheletri escono dall’armadio e tutti gli ideatori delle stragi rischiano l’ergastolo”. Secondo Scarpinato c’è quindi “un’esigenza da parte di coloro che hanno fatto le stragi di unire le forze affidandosi alla mafia siciliana e alla ’ndrangheta cui viene delegato il ruolo di braccio armato”.
Quindi il linguaggio delle bombe viene posto in essere “sino a quando non si trova la soluzione politica della discesa in campo di Silvio Berlusconi, che consente di accantonare la soluzione bellica”. Questa storia è ancora attuale, spiega l’ex magistrato, perché “quello che è successo nel ’92-93, e quello che è successo prima, è a conoscenza di una decina di boss mafiosi e stragisti condannati all’ergastolo. Boss che usando l’arma del silenzio potrebbero, a breve, uscire dal carcere”. Come dire che in Italia i golpe non finiscono mai.
Antonio Padellaro



