De Masi: “La lenta fine della sinistra”

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Nel 1948, alle prime elezioni del dopoguerra, la sinistra era rappresentata da tre partiti (comunista, socialista e socialdemocratico); la destra (liberali, monarchici e neofascisti) era pressoché inesistente.

Alle prossime elezioni, la situazione è rovesciata: questa volta inesistente è la sinistra mentre la destra è rappresentata da tre partiti. Lo ha già osservato Giulio Gambino su Tpi e vale la pena ribadirlo.

Cosa è successo in questi 74 anni? I partiti di sinistra sono il riferimento politico delle classi disagiate. Non esistono più queste classi? Tutt’altro. Politiche economiche, pandemia e guerra legittimano l’ipotesi che nel prossimo autunno almeno 12 milioni di italiani vivranno in condizioni penose. A essi vanno aggiunte le centinaia di migliaia di stranieri, clandestini e non, che subiscono uno sfruttamento sistematico.

Ma la questione non riguarda solo i poveri. Anche molti giovani e meno giovani che superano la soglia della povertà vivono in uno stato di precarietà perenne, imposta dalla politica economica neo-liberista che della precarietà e del rischio diffusi ha fatto i suoi principi fondamentali. “Siamo tutti in soprannumero” denunziava André Gorz già molti anni fa.

I partiti di sinistra hanno intercettato solo in parte questa massa crescente di precari: nell’estate del 2019 i sondaggi davano il Pd e la Sinistra al 24,4% delle dichiarazioni di voto; dopo 31 mesi, il 25 luglio scorso, i tre partiti sono saliti al 29% ma con l’aggiunta dei Verdi. Se all’aumento degli emarginati non corrisponde un parallelo aumento delle adesioni ai partiti di sinistra, c’è qualcosa che non funziona nei loro paradigmi e nelle loro macchine organizzative.

Negli ultimi decenni del secolo scorso, gli intellettuali discussero molto sulla validità delle due categorie “destra” e “sinistra”. Per alcuni (ad esempio Massimo Cacciari) esse erano ormai destituite di significato teorico e di utilità operativa.

Per altri (ad esempio Norberto Bobbio e Marco Revelli) esse restavano valide e il carattere distintivo della sinistra consisteva nell’egualitarismo. Per chi volesse ricostruire lo stato dell’arte nel dibattito destra-sinistra, rinvio a un mio saggio pubblicato nell’ultimo numero di MicroMega. In sintesi si può dire che oggi la contrapposizione frontale è tra neoliberismo, che si risolve fatalmente in aumento delle disuguaglianze, e socialdemocrazia che le riduce.

La distinzione è netta e chiara, ma nell’ultimo mezzo secolo i leader di sinistra hanno fatto a gara per disorientare i cittadini. Si pensi, ad esempio, agli esperimenti di “terze vie” alla Tony Blair. Ma in Italia il disorientamento è iniziato subito dopo la morte di Enrico Berlinguer, quando le sinistre caddero in un insano innamoramento per il neoliberismo considerato come salvifica modernizzazione.

Se si pensa che, negli anni 90, quando Mario Draghi fu Direttore generale del Tesoro e presidente della Commissione per le privatizzazioni, la furia privatizzatrice contro le industrie di Stato e il settore pubblico non fu sferrata da leader neoliberisti come Berlusconi o Dini, ma da socialisti e comunisti come Amato, Bersani e D’Alema, ci si rende conto del disorientamento in cui è stato via via trascinato il popolo di sinistra.

Il capolavoro perverso, allora compiuto sotto l’accorta regia di Draghi, negli anni successivi si è ripetuto più volte, sotto altre regie meno raffinate. Si pensi all’articolo 18 abolito non da Berlusconi, leader di Forza Italia, ma da Renzi, leader del Pd. E si pensi, da ultimo, allo stesso Pd che, per fare fede alla sua natura di sinistra, dovrebbe esibire con orgoglio un programma socialdemocratico e che invece fa sua l’agenda di un liberista come Draghi, dopo essere stato il massimo sostenitore del suo governo.