Dem in tilt pure sulle poltrone. E Letta cerca un ruolo per sé

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Nel caos assoluto e pure vagamente fuori dalla realtà che attraversa il Pd in questa depressa fase post-elettorale, mentre Giuseppe Conte si prepara a prendere la guida dell’opposizione, è difficile pure individuare la direzione (anzi le direzioni) di marcia

Le “parole sono importanti” (tanto per usare una citazione abusata). E rappresentano qualche indizio. “Fase costituente”, “scioglimento”, “scissione”: le formule che girano, con tanto di soluzioni intermedie o finali, seppur con significati affini, non sono sinonimi. Perché nel Pd gli schemi si moltiplicano, i giochi pure.

Uno schema “ordinato” è quello che ha in testa Enrico Letta: è pronto a cambiare nome e simbolo, a trasformare il Pd in un’altra cosa (“una cosa più ampia”, secondo i più ottimisti), attraverso il ritorno degli scissionisti di Articolo 1 e la ricerca di una candidatura forte (l’ipotesi che va per la maggiore, per ora, rimane quella di Elly Schlein).

Sarebbe un modo per lui anche di restare in gioco, di costruirsi un ruolo per il suo futuro politico. Roberto Speranza è d’accordo, ci sta.

Ma non ci sta neanche una parte dei suoi. Raccontano che insieme a Goffredo Bettini ci sarebbe Massimo D’Alema a lavorare per lo scioglimento del Pd, con l’idea di fare una “cosa rossa”, insieme a Conte. Un’operazione in qualche modo opposta. I rapporti tra i tre – d’altronde – non sono un mistero. E allora, ecco che prende sostanza la parola “scissione”.

Che al momento, però, non fa troppi proseliti all’interno dei due partiti che di fatto coesistono dentro i dem. Perché l’ipotesi Schlein è fatta per tenere comunque tutti dentro, dopo una battaglia congressuale che dovrebbe vederla battere Stefano Bonaccini, insieme al suo gruppo di sindaci nella veste di rottamatori del vecchio Pd (Dario Nardella, Giorgio Gori, Antonio Decaro).

Esiste una zona grigia, fatta da Andrea Orlando e Francesco Boccia, tra gli altri, che lavorano per un’alleanza strutturale Pd-5S. Ma immaginando che il Pd resti un unico partito. E cercando anche un’ipotesi alternativa alla Schlein. Certo, se invece il congresso dovesse vincerlo il presidente dell’Emilia Romagna, le cose diventerebbero più complesse. E magari a quel punto c’è chi uscirebbe. Non una scissione d’anticipo, ma di riflesso.

Solo a raccontarle, le dinamiche che agitano il Pd mentre Giorgia Meloni lavora al suo governo chiariscano come più che a fare l’opposizione, i dem siano concentrati sulle proprie problematiche. E infatti, a scendere di livello, rispetto alle crisi identitarie, ci sono una serie di battaglie che si stanno consumando, sulle (poche) cariche in gioco.

La prima è la guerra sui capigruppo. Mentre una delle ipotesi è quella di confermare Debora Serracchiani e Simona Malpezzi, almeno fino al nuovo segretario, ci sarebbe il vecchio gruppo dirigente che lavora per blindarsi. Per il posto di capogruppo alla Camera, c’è già una battaglia sotterranea tra Orlando e Nicola Zingaretti.

Mentre c’è chi tra le correnti, trasversalmente, lavora per portare Dario Franceschini alla vice presidenza del Senato e Lorenzo Guerini, alla vice presidenza di Montecitorio. Una specie di cintura di sicurezza per blindare i vecchi assetti di potere in attesa dei nuovi. Difficile che il giochino riesca del tutto: non è neanche detto che gli interessati alla fine si prestino. Ma il tentativo è indicativo.

Senza contare che c’è poi l’annosa questione delle donne, con tanto di rivolta in corso per chiedere le dimissioni di Cecilia D’Elia, portavoce delle donne dem. “Ci dobbiamo vergognare, non di oggi, ma di ieri, quando anche le donne dirigenti hanno accettato delle liste in cui i capi lista erano 18 femmine e 27 maschi”, sono i messaggi di queste ore. Ancora: “Io credo che l’unica soluzione sia avere donne femministe nei luoghi apicali del potere del partito. Altrimenti sono chiacchiere”. Ma anche: “Questa chat è la bolla delle bolle”.

Intanto, un ruolo tra tanti, parrebbe già deciso: quello che vuole Enrico Borghi alla presidenza del Copasir. Il Pd è la prima forza di opposizione. Senza contare che Letta e Meloni sono uniti su un punto: l’atlantismo e la posizione sull’Ucraina. Ponti che tornano utili per il futuro prossimo di entrambi.