Secondo il canale tv France-Info e il quotidiano Le Figaro, il Rassemblement National, il partito di Marine Le Pen e Jordan Bardella che i sondaggi mostrano tuttora in testa nelle preferenze degli elettori francesi con cifre oscillanti fra il 36 e il 38%, avrebbe recentemente firmato un contratto con una società specializzata nella “reputazione digitale”, affidandole un compito piuttosto particolare: spiare le attività online di tutti quei suoi iscritti o dirigenti che potrebbero un giorno candidarsi nelle sue liste per assumere ruoli pubblici.
Il motivo dell’incarico, che presenta costi onerosi (alcune centinaia di euro per ogni singolo passaggio al setaccio di profili social e gruppi di discussione – e i candidati da reclutare per un’elezione parlamentare sono ben 577, il che porta a totali a molti zeri) e si presta all’accusa di intromissione nella vita privata dei “monitorati”?
Individuare non solo gli eventuali dérapages razzisti, omofobi o antisemiti – tre ambiti in cui il RN da sempre è sotto il fuoco di fila dei sospetti e delle accuse degli avversari ed è costretto a continue repliche – ma anche i commenti “non in linea” sul conflitto russo-ucraino o su quello israelo-palestinese. Si tratta, insomma, di una vera e propria schedatura destinata a radiare preventivamente dalle liste i potenziali dissidenti dalle scelte del duo che tiene le redini (non sempre in sintonia, malgrado le apparenze; ma questa è un’altra storia) del movimento.
Gli aspetti più discutibili della vicenda sono stati, com’era ovvio, minimizzati dal portavoce del RN Aleksandar Nikolic, il quale ha parlato di un semplice metodo per dotarsi “della miglior squadra possibile, più rappresentativa del partito”, informandosi sulla “linea di pensiero” degli osservati e tenendo conto, grazie all’uso di fonti aperte accessibili a tutti e con l’ausilio dell’Intelligenza artificiale, di “quel che hanno potuto dire in passato”. Onde evitare nuovi scandali mediatici come quelli che hanno azzoppato alcuni imprudenti candidati alle Legislative dello scorso anno.
Estratta dallo specifico contesto transalpino, questa vicenda evoca un duplice problema con cui si trovano oggi alle prese molti partiti populisti e/o sovranisti europei, giunti rapidamente negli ultimi anni a livelli di consenso inattesi e perciò impreparati a svolgere ruoli di responsabilità o addirittura di governo. Da un lato c’è la carenza di classi dirigenti opportunamente formate e selezionate e addestrate ai compiti di rappresentanza da una lunga gavetta nelle assemblee e amministrazioni locali.
Dall’altro, la persistenza, fra i militanti ma anche a volte fra i quadri intermedi, di mentalità e atteggiamenti non in linea con le scelte dei vertici: un dato che è particolarmente visibile in quelle formazioni che sono il frutto di progressive evoluzioni rispetto a un passato di destra radicale o estrema. Realtà che, a esempio, nel caso italiano son state messe a nudo dalle reiterate gaffe di ministri e parlamentari di Fratelli d’Italia o dalle esternazioni di suoi dirigenti giovanili carpite dagli infiltrati di Fanpage, ma che si sono replicate in altri soggetti della stessa area a livello europeo, come Vox, AfD, RN, Chega, Perussuomalaiset, Vlaams Block, Fpö, Danske Folkeparty, conducendo a frequenti polemiche e scissioni, e persino alla deflagrazione del partito.
Le cause del fenomeno sono molteplici, e fra queste non va sottovalutato un aspetto psicologico che di rado gli studiosi del campo – nella quasi totalità avversari dichiarati del loro oggetto di ricerca, e perciò propensi a scegliere scorciatoie atte a denigrarlo piuttosto che a esaminarlo con pazienza e con quel pizzico di temporanea empatia che è indispensabile per coglierne le caratteristiche meno evidenti – hanno scandagliato. Cioè la ritrosia dell’“uomo di destra”, più emotivo, meno razionale e nel fondo molto più “antipolitico” dei suoi avversari, a farsi imbrigliare all’interno di un sistema di regole e ripartizione di funzioni. Ma c’è un fattore che appare più cruciale di ogni altro: la carenza di un’identità ideologica – o, se si preferisce, di una cultura politica – ben definita, comune e accettata, maturata a seguito di un processo preordinato, di una discussione aperta, di un chiaro confronto pubblico.
Niente del genere si è manifestato nel corso degli anni che hanno visto l’ascesa dei partiti di quella che oggi è definita, con le sue molte sfumature e contraddizioni, destra populista o sovranista, nella quale quasi sempre le svolte sono state determinate dall’esclusiva volontà del (o della) leader e da costoro imposte ai quadri intermedi e alla base, che le hanno in gran parte digerite, almeno in una prima fase, in virtù dell’euforia degli inattesi successi.
È stato così in Italia, prima con la nascita di Alleanza nazionale dal frettoloso lavacro di Fiuggi con tesi congressuali che ricucivano con più di un equilibrismo il vecchio e il nuovo per cercare di piacere a tutti, e poi con quella di Fratelli d’Italia, che ambiva a essere un “Pdl 2.0” con la rassicurante presidenza dell’ex Forza Italia Crosetto e si è visto poi costretto dai magri dividendi elettorali iniziali a recuperare simbolo e idee prima dal passato Msi-An e poi dalla rampante ondata populista, salvo rientrare sui binari di una maggior moderazione a governo conquistato. E così è stato in Francia subito dopo che l’incauto Jean-Marie Le Pen, che pur con non poche giravolte aveva conferito all’allora Front National un suo marchio preciso (e di presa limitata a un 15% dell’elettorato) ha imposto la consegna del bastone del comando alla figlia Marine, che in breve ha trascinato il partito ereditato sulle sponde di un nazional-populismo sempre meno vincolato alle parole d’ordine della vecchia destra. E così sono andate le cose altrove, dove a sciogliere i nodi e dettare la rotta (e i suoi cambiamenti spesso repentini) sono sempre stati i capi: gli Haider, gli Abascal, i Wilders, i Salvini e i tanti meno noti equivalenti.
Queste operazioni sono state sempre condotte all’insegna di un unico obiettivo: il conseguimento di una sino ad allora inesistente legittimazione. Non quella elettorale, che ormai si stava profilando con risultati significativi, ma quella degli attori istituzionali, Unione europea in testa, e dei poteri di fatto: imprenditoria, finanza, ambasciate Usa. Ciò ha comportato una serie di bruschi aggiustamenti nei programmi, che nella maggioranza dei casi hanno visto sparire le aperture a politiche sociali welfariste (di “destre sociali” oggi è arduo scorgere l’ombra), a politiche estere neutraliste e diffidenti del militarismo – che invece campeggiavano nelle promesse di quasi tutti i partiti populisti allora all’opposizione –, a preoccupazioni ecologiche.
Al loro posto sono comparsi la fedeltà all’Occidente a guida statunitense e alla Nato, il liberalismo economico, la lotta indiscriminata al green deal. Solo una certa resistenza (non in tutti i casi) all’avanzata progressista sui piani etico e culturale, e l’ostilità all’immigrazione, sono sopravvissuti a questo restyling.


