La maggioranza di governo, che prometteva di eliminare la legge Fornero, ha alzato il requisito contributivo mensile di 306,65 euro: come spiegano i dati Cgil, vuol dire che oggi, rispetto al 2022, è necessario accantonare presso l’Inps 3.900 euro in più l’anno, che fanno 79mila euro di montante, che equivale riuscire a percepire 238 mila euro in più in una vita di lavoro. Il calcolo fa ancora più effetto al 2030, quando per andare in pensione a 64 anni servirà aggiungere altri 502 euro al mese alla soglia introdotta dalla Fornero, che fanno più 6.500 euro l’anno, ovvero 128mila euro di montante, che vuol dire guadagnare 389 mila euro in più in una vita di lavoro per il diritto alla pensione.
«Mentre i salari negli ultimi anni crescono di pochi punti percentuali, l’importo soglia cresce a doppia cifra (più 22 per cento)», commenta Ezio Cigna della Cgil, che continua: «Così si escludono i lavoratori con carriere discontinue, i part-time, i precari e chi ha un salario medio basso, che sono i veri dimenticati da qualsiasi riforma post 1996».
Precedenza ai ricchi
La soglia Durigon a 64 anni è riservata a una risicata casistica di italiani che ha condotto una carriera professionale più che ricca. Il sottosegretario, per placare il malcontento di tutti quei leghisti traditi dalle promesse di partito – ricordiamo che Matteo Salvini aveva avviato una coriacea battaglia, quasi personale, contro Elsa Fornero – ci ha messo una pezza. Dove pescare i 500 e rotti euro in più al mese, necessari per andare in pensione a 64 anni? Dalla liquidazione. Ma attenzione, l’opzione è solo per coloro che hanno versato il tfr all’Inps, ovvero per i dipendenti delle aziende con più di 50 dipendenti. Commenta Cigna:
«La cosiddetta “uscita flessibile” a 64 anni per i contributivi puri si è trasformata in un percorso impervio: questa dinamica allontana l’accesso al pensionamento per intere generazioni, pone un serio problema di equità intergenerazionale e sociale, ed è il primo nodo da affrontare per una riforma che voglia davvero restituire flessibilità e giustizia al sistema».
L’innovazione lascia cristallizzate le problematiche della riforma Fornero, ovvero la misera pensione dei non più giovani (molti hanno superato i 40 anni di età) con carriere discontinue, buchi pensionistici, lavori part time e bassi salari. Questo accade per via del passaggio dalla pensione retributiva alla contributiva, prevista dalla Legge Dini, che calcola la pensione sul montante, cioè sulla quantità di denaro accantonato all’Inps.
Ad esempio, un manager da 5.200 euro al mese, in soli 20 anni, arriva al requisito minimo e può andare subito in pensione, senza usare il tfr. Una lavoratrice part time da 600 euro al mese – come lei ci sono 4,5milioni di italiani in part time – in pensione non ci potrà andare a 64, neppure aggiungendo il tfr, non ci potrà andare a 67 (perché non raggiunge 1,5 volte l’assegno sociale), ci andrà a 71 anni.
Lo stesso vale per persone che hanno avuto carriere stabili e salari dignitosi: la docente a 1.700 euro, anche investendo il proprio tfr (60 mila euro) dovrebbe trovare altri 50 mila euro per andare in pensione. Non resta che continuare a lavorare per 42 anni e più, sperando di raggiungere il montante necessario per andare in pensione a 67 o, in alternativa, attendere i 71 anni.
La Cgil ha assunto come riferimento il valore medio delle retribuzioni nel settore privato nel 2023, pari a 23.700 euro lordi (ma ricordiamo che il 35,7 per cento dei lavoratori guadagna meno di 15mila euro l’anno): «La nostra analisi mostra che, anche dopo 40 anni di lavoro, il montante contributivo maturato rimane al di sotto delle soglie previste», commenta Cigna. Nello specifico, con un salario annuo da 23.700 euro, dopo quarant’anni di lavoro si arriverebbe a una pensione di 1.496 euro e, per arrivare alla soglia minima prevista per legge, servono altri 30mila euro di accantonamento all’Inps. Lo stesso nel 2030, quando servirebbero altri 80mila euro. «Anche includendo il tfr maturato, i valori restano in quasi tutti i casi al di sotto delle soglie richieste, con l’unica eccezione dei 40 anni di contribuzione, dove si supera la soglia nel 2025 utilizzato l’intero tfr accumulato, mentre nel 2030 investendo almeno metà del tfr».
Il trucco
Dunque, perché inventarsi la possibilità di sgranare il tfr sulla pensione? Lo stesso Durigon dice che ogni anno l’Inps dà 6,8 miliardi di euro di liquidazione a chi lascia il lavoro. Se quel denaro restasse nelle casse Inps per qualche anno in più, la contabilità di Stato ringrazierebbe. Ma non è neanche detto che si possa fare. La Corte Costituzionale in una sentenza del 2019 dice: «La garanzia della giusta retribuzione si sostanzia non soltanto nella congruità dell’ammontare (del tfr, ndr) concretamente corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione». Dunque, si prefigura una sorta di esproprio forzoso incostituzionale. Tant’è che Durigon si è affrettato ad affermare che si tratta di una possibilità volontaria, non certo un obbligo. Non a caso il sottosegretario sostiene si tratti di una riforma a costo zero.
Parola agli investitori
Le proposte di riforma non sono sfuggite agli investitori finanziari. Goldman Sachs ha recentemente realizzato il report Italy-Resist Fiscal Temptation e Filippo Taddei, senior european economist della banca d’affari di Manhattan, commenta: «A sostenere il debito italiano e i Btp è stata, più dell’aspettativa di crescita, la prudenza del governo sul deficit fiscale». Tre i fattori di rischio individuati da Goldman Sachs, che potrebbero invertire la rotta di consolidamento fiscale e di cui si sta discutendo in questo avvio di manovra d’autunno, troviamo: la riduzione dell’Irpef (richiesta da Forza Italia); la tassa sulle banche (richiesta dalla Lega); un anticipo dell’età pensionabile (sempre Lega): «Quest’ultima misura merita maggiore attenzione. L’Italia ha un debito pubblico fra i più alti d’Europa e demografia sfavorevole. Ogni passo indietro rispetto al percorso intrapreso sul fronte del consolidamento fiscale, come nel caso di una riduzione dell’età di pensionamento, è un elemento di rischio che porterebbe a un deterioramento del Btp».
Lo sfavore demografico, spiega Taddei, consiste nell’aver il rapporto fra over 65enni e lavoratori occupati più alto d’Europa, oltre a tassi di fertilità e immigrazione netta tra i più bassi del Vecchio Continente: «Questi tre elementi, caratteristici della situazione italiana, ci dicono che, se si aumenta strutturalmente la spesa pensionistica si riduce il prodotto interno lordo perché si contrae la platea dei (già pochi) italiani attivi». In più l’instabilità della vicina Francia è un elemento che, paradossalmente, gioca a nostro sfavore: «Gli investitori, osservando le difficoltà francesi, percepiscono che, se l’Italia oggi dovesse fare un passo indietro rispetto alla riforma pensionistica – che per altro contempla un automatismo sano fra aspettativa di vita e età pensionabile -, domani potrebbe ritrovarsi in un clima di incertezza».
Il report Goldman Sachs dice che l’Italia ha impiegato più tempo degli altri paesi per recuperare la stabilità precrisi: «In termini di reddito procapite l’Italia è tornata a livelli del 2018 solo nel 2023. In questi15 anni la Germania ha invece registrato una performance spettacolare (oltre 20 per cento), la Spagna più 10 per cento, la Francia più 15 per cento». Che succederebbe se portassimo l’età pensionabile a 64 anni? «La Legge Fornero ha bloccato l’esplosione della nostra spesa pubblica e l’erosione dello stato sociale italiano attraverso la spesa pensionistica. Quella riforma è stata il requisito al consolidamento fiscale, che a sua volta è un prerequisito alla crescita. Toccarla è controproducente e l’ipotesi di ridurre l’età pensionabile a 64 anni è altamente improbabile».


