Il voto dei due terzi degli Italiani, accorsi ai seggi nazionali ed esteri per rinnovare Camera e Senato che debuttano nella versione ridotta di 600 parlamentari eleggibili, ha espresso, utilizzando i meccanismi impliciti nella legge Rosatellum – in un mix di liste proporzionali plurinominali bloccate e di collegi uninominali -, una inclinazione nettamente maggioritaria. Inclinazione che ha consentito alla coalizione di destra-centro di conseguire il 55 per cento dei seggi con il 45 per cento dei consensi premiando, all’interno di tale cifra, la formazione politica conservatrice di Giorgia Meloni
La quale si appresta a ricevere dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, nella seconda metà di ottobre dopo gli adempimenti di rito per l’elezione dei nuovi Presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama, l’incarico di formare il Governo che subentrerà all’attuale Premier dimissionario Mario Draghi.
Alcune premesse sono d’obbligo, a partire dal forte astensionismo, causato non soltanto da fattori di mancata fiducia nei confronti del sistema dei partiti ma altresì da questioni di ordine logistico e legale che non hanno permesso agli aventi diritto fuori sede di votare al di fuori del proprio luogo di residenza. Sta di fatto che il calo dell’affluenza alle urne è stato di 7 punti al confronto con il dato del 2018, il che deve rappresentare un motivo di riflessione trasversale per tutti, anche per coloro che hanno fortemente voluto una riforma costituzionale per ridurre da 945 a 600 il numero dei Deputati e Senatori assegnati ai rami del Parlamento, aggravando il già fragile e precario legame tra eletti e territori di elezione (divenuti oramai territori di mera ratifica delle designazioni operate dai segretari dei partiti e delle coalizioni).
Il secondo dato è quello relativo alla sconfitta di almeno due leader populisti su tre, mentre il terzo – ossia l’ex Premier e leader grillino Giuseppe Conte – ha salvato egregiamente, andando oltre 15 per cento, il proprio ruolo giocando in difesa con una campagna di rimonta del movimento cinque stelle incentrata totalmente sulla tutela del reddito di cittadinanza soprattutto al Sud. Molto peggio è andata agli altri due esponenti della corrente populista: il ministro uscente degli esteri Luigi di Maio, tardivo e poco credibile come centrista, sconfitto nel collegio uninominale di Napoli e umiliato, assieme ai transfughi ex pentastellati, nei collegi plurinominali di tutta Italia; e l’ex ministro degli interni e segretario leghista Matteo Salvini, sceso sotto il 9 per cento nazionale, quasi pareggiato da un rinato Silvio Berlusconi e surclassato dalla Meloni in tutti i collegi del Nord.
La Presidente e fondatrice di Fratelli d’Italia ha compiuto un percorso di maturazione personale e politica rivelatosi premiante: in Europa ha assunto la guida del gruppo dei Conservatori, una realtà ben diversa da quella di identità e democrazia di cui la lega salviniana fa parte assieme a formazioni dichiaratamente neonaziste; in Italia, ha abbandonato le pulsioni più demagogiche, affidate viceversa al collega di coalizione Salvini, a favore di una campagna anzitutto incentrata sul patriottismo più che sul sovranismo, e indirizzata alla necessità di provvedimenti che tutelino l’interesse nazionale non rinnegando ma, in sede soprattutto europea, rinegoziando. Senza mai uscire dal perimetro Atlantico e atlantista. Circostanza che ha contribuito a fare di lei una autorità politica, e di futuro Governo, credibile e meritevole di ricevere una chance.
Qualche comparazione per capire ulteriormente il quadro uscito dai seggi del 25 settembre. Silvio Berlusconi ha ottenuto quello che si era prefissato alla vigilia: pareggiare tendenzialmente l’amico rivale Salvini ed essere numericamente determinante nella formazione e nella fiducia alla designata Premier Meloni. Molti sono gli interrogativi a cui la gestione del “capitano”, che in tre anni ha dilapidato il 33 per cento conseguito alle Europee del 2019, dovrà rispondere, a partire da una conduzione centralista e non di rado autoreferenziale di interi distretti geografici impossibilitati a interloquire con i dirigenti della fu lega Nord di Bossi.
Inoltre una constatazione: Giorgia Meloni ha ricostruito, da destra, la base elettorale del Popolo della libertà di Berlusconi e Fini. Sommando i consensi di Fratelli d’Italia e di Forza Italia, il totale percentuale supera nettamente il 30 per cento e relega la componente leghista a movimento localista diffuso ma, oggi a differenza dell’era del Senatùr di Cassano Magnago, dalle radici molto più deboli.
A casa del centrosinistra, il PD di Enrico Letta torna esattamente dove si era fermato nel 2018 sotto la fase finale della segreteria Renzi: al 19 per cento. Alleanze poco credibili a sinistra, e smentite dallo stesso Letta come ipotetiche coalizioni di governo, hanno fatto il resto nelle convinzioni degli elettori, e forse gran parte del maggiore astensionismo è ascrivibile a un elettorato ex PD.
Carlo Calenda, ex alleato (per una settimana) di Letta, e Matteo Renzi, ex segretario del PD, hanno dato vita in poco più di un mese a un patto elettorale e di programma basato sulla continuità con l’agenda di Mario Draghi e sul contrasto a sovranismo e populismo, esercitando una funzione calamitante nei confronti di una parte dell’elettorato e del gruppo dirigente di Forza Italia (le Ministre Carfagna e Gelmini e il deputato Enrico Costa) e arrivando quasi a pareggiare il partito storico del Cavaliere, posizionandosi al sesto posto nazionale.
Discorso a parte merita Giuseppe Conte: premier prima con la Lega e poi con il PD, quindi sfiduciato da Renzi e sostenitore per forza e alla fine oppositore di Draghi, ha percorso questa legislatura con un ruolo protagonista, ma nel corso della appena conclusa campagna elettorale è riuscito a fare dimenticare gli scivoloni (molti) commessi a palazzo Chigi tra l’estate 2018 e l’anno terribile del covid: come dicevamo, ha incentrato la totalità dei propri comizi sul totem del reddito di cittadinanza come strumento di assistenza sociale da difendere a ogni costo, e il corpo elettorale (pur in assenza di proposte diverse) gli ha dato ragione accordando un consenso pari a poco meno della metà delle percentuali che nel 2018, a guida di Maio, portarono i grillini a essere il primo partito italiano.
Adesso quindi tocca a Giorgia: contenimento delle bollette separando il prezzo del gas da quello dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, pace fiscale vera con Equitalia (Tremonti permettendo), proseguimento attuativo dei fondi del Pnrr in accordo con Bruxelles, approvazione della legge finanziaria e di bilancio per evitare l’esercizio provvisorio, attivazione di un ponte collaborativo sistemico con il Mediterraneo e con l’Albania e i Balcani occidentali per una rinnovata stagione geopolitica di sicurezza e indipendenza di ambito vasto indispensabile per approvvigionamenti energetici e alimentari continuativi e accessibili. Già questo sarebbe un programma forte, autorevole e patriottico. Perché i fuochi d’artificio della campagna elettorale vanno spenti e riaccesi, purché in completa sicurezza, soltanto a capodanno.
Dir. politico Alessandro ZORGNIOTTI




