Trump, Trump, Trump. I dazi americani, il debito americano, la strategia americana. Il declino dell’impero Usa, la de-dollarizzazione del mondo, le Big Three finanziarie, il woke, il Maga, le Big Tech, il tecno-ottimismo. Politicamente e culturalmente, siamo ancora e sempre inchiodati lì: sudditi degli Stati Uniti. Non se ne può più.
Ecco, quando l’intossicazione americanista ci prende alla gola riascoltiamo Giorgio Gaber. “Non c’è popolo più stupido degli americani”, diceva. Aveva ragione. Di quali doni all’umanità possiamo ringraziare gli yankee? Una manciata: la filosofia vitalista di Ralph Waldo Emerson, la lampadina elettrica, il rock’n roll, Jack Nicholson e un paio di immortali serie televisive. Già sull’invenzione dei fratelli Wright, l’aeroplano, ci viene qualche dubbio. Ed è solo per carità pasquale che tralasciamo la lunga lista di orrori con cui ci hanno rovinato la vita, dalla bomba atomica all’idrovora del consumismo. È vero: nelle accademie d’oltreoceano non mancano i cervelli pensanti, non di rado femminili. Basti citare, per fare giusto due nomi, Shoshana Zuboff, arcicritica dello strapotere tecnologico (“Il capitalismo della sorveglianza”), o l’anti-postmoderna Camille Paglia (“Sexual Personae”).
Ma l’America, intesa come America interiore, resta quella cosa ignobile che abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene: l’idea, paranoica e al tempo stesso infantile, di incarnare il Bene e di identificarlo nella quantità di denaro dal quale produrre altro denaro, e così all’infinito. Stelle e strisce: la bandiera del gran porco liberale.
“Ed eccoci qui anche noi, liberi, liberali, liberisti, siamo per la rivoluzione liberale, ma con la solidarietà, siamo liberistici e per il liberalismo, siamo liberaloidi, libertari, libertini, libertinotti. Liberi tutti! No, a me l’America non mi fa per niente bene. Troppa libertà, non c’è niente che appiattisca l’individuo come quella libertà lì. Nemmeno una malattia ti mangia così bene dal di dentro. Come sono geniali gli americani, te la mettono lì, la libertà è alla portata di tutti, come la chitarra. Ognuno suona come vuole, e tutti suonano come vuole, e tutti suonano come vuole la libertà”. Così cantava Giorgio Gaber nel brano L’America, tratta dall’album intitolato non a caso “Libertà obbligatoria” (1976). Gaber, un uomo troppo libero per essere rinchiuso in qualsivoglia etichetta. Dunque, necessariamente anti-liberale: “L’America non mi fa per niente bene, troppa libertà. Non c’è niente che appiattisca l’individuo come quella libertà lì, nemmeno una malattia ti mangia così bene dal di dentro”. Et voilà la libertà cara ai liberali: la libertà negativa, la libertà-da (che non sa essere libertà-di).
La libertà come assenza – di fini, di valori, di ideali. Libertà vuota. Libertà-involucro. Libertà-alibi. Libertà vittimistica, mentalmente da schiavi. Libertà più facile in quanto intrinsecamente individualistica, e cioè fondata sulle passioni più basse: l’avidità, la pigrizia, il senso narcisistico di onnipotenza. Una libertà egoriferita, anti-sociale, spoliticizzante. Problema: come si fa a combattere il vuoto, accusare chi fa la vittima, sconfiggere l’astrattezza dell’“individuo”, contrastare la scorciatoia dell’egoismo? Questo è il colpo di genio del liberalismo (o, se si vuole, del capitalismo): fare leva sugli istinti più degradanti della psiche umana.
Alessio Mannino


