ELEZIONI, SCOPPIA LA GRANA PRESIDENZIALE: MATTARELLA SÌ O NO IN CASO DI RIFORMA COSTITUZIONALE?

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La dichiarazione di Silvio Berlusconi su quelle che dovrebbero essere le conseguenze politiche della riforma costituzionale in senso presidenzialista immaginata dalla coalizione di destra centro – ossia le dimissioni di Sergio Mattarella dal Quirinale per avviare subito dopo l’elezione diretta del capo dello Stato – ha per la prima volta acceso veramente la miccia della contrapposizione, non più solo a distanza o fondata su disquisizioni teoriche, tra le diverse fazioni elettorali in gara

Una premessa: tra Mattarella e Berlusconi i rapporti non sono mai stati idilliaci, fin dalla prima repubblica, quando l’esponente DC, allora ministro della pubblica istruzione nel sesto governo Andreotti, si dimise dal ministero di viale Trastevere in segno di protesta contro il varo della legge Mammì che, riformando il sistema delle frequenze radiotelevisive, di fatto consolidava l’impero editoriale del Cavaliere di Arcore non ancora sceso in campo.

Fu sempre Berlusconi, da capo del governo nel 2006, a provocare la cancellazione della legge elettorale che portava il nome dell’attuale presidente della Repubblica – il Mattarellum, un sistema elettivo per tre quarti maggioritario e per un quarto proporzionale – per sostituirla con la legge Calderoli detta Porcellum.

Andando avanti: nel 2015, dopo le dimissioni di Napolitano, forza Italia non esultò certamente alla proposta del Premier e segretario PD dell’epoca, Matteo Renzi, di eleggere Sergio Mattarella al Quirinale.

Negli anni a seguire, tuttavia, i rapporti sono proseguiti nel segno di una certa distensione, culminata all’inizio del 2022, dopo la rinuncia di Berlusconi a candidarsi a capo dello Stato e il naufragio dell’ipotesi di Elisabetta Casellati: il fronte parlamentare fu pressoché unanime, al netto di fratelli d’Italia, nel chiedere a Mattarella, anche se fu anzitutto una implorazione, di restare al vertice della presidenza della Repubblica. Circostanza che egli accettò, sebbene in precedenza avesse più volte dichiarato di volersi attenere alla stretta applicazione del dettato costituzionale che prevede espressamente un mandato settennale.

Adesso arriva invece lo strappo. Il presidenzialismo è contenuto nell’accordo programmatico quadro del destra centro, dove a esso si abbina il rafforzamento del ruolo delle autonomie locali assieme al regionalismo differenziato imposto dalla lega.

La revisione costituzionale sarebbe quindi su più titoli e articoli della Costituzione, e per renderla nell’immediato vigente la coalizione guidata da Giorgia Meloni punta a conseguire, nelle elezioni politiche del 25 settembre, la maggioranza dei due terzi dei parlamentari assegnati alla Camera e al Senato: un risultato che gli attuali sondaggi indicano come non automatico e non scontato nonostante il forte vantaggio di partenza dell’asse tra FdI, lega e forza Italia nei confronti del PD.

Il conseguimento della maggioranza parlamentare dei due terzi infatti consente di emendare la Costituzione senza dover poi passare attraverso il passaggio, normativamente obbligatorio, del referendum confermativo, quello che costò palazzo Chigi a Renzi a fine 2016 e che permise a Conte di portare a casa, nell’autunno del 2020, la riduzione numerica dei parlamentari.

Una questione di merito sorge tuttavia spontanea: sarebbe opportuno, anche di fronte all’opinione pubblica internazionale e alla comunità degli investitori economici e finanziari, che hanno più volte dimostrato di apprezzare l’operato e la persona di Mattarella, congedare quest’ultimo dopo averlo implorato di rimanere al Quirinale, richiesta alla quale si associò a inizio 2022 lo stesso Berlusconi?

Si arriverebbe al paradosso che una riforma sventolata con l’obiettivo di dare stabilità e legittimità democratica e popolare alle istituzioni repubblicane, diverrebbe un ennesimo fattore di tensioni e di instabilità interne e internazionali, oltre che uno strumento con cui attuare una autentica scortesia sul piano umano e politico istituzionale.
A meno che Berlusconi non immagini un confronto, nel futuro quadro presidenzialista, di una gara per il Quirinale tra sé e lo stesso Mattarella, ipotesi che proprio il Cavaliere di Arcore ha ventilato tra le righe della propria dichiarazione quasi a volere correggere preventivamente il tiro.

Si tutto, ci si permetta però una osservazione: siamo in presenza di una campagna elettorale tra le più anomale a cui abbiamo mai assistito, sia per il periodo in cui si svolge, sia per come viene condotta da due dei tre schieramenti in campo, con un centrosinistra e un centro impegnati non a vincere ma a impedire che Meloni vinca troppo.

Domandiamoci allora: nella legge di revisione costituzionale sulla diminuzione del numero di deputati e senatori, votata da Grillini, lega e PD fondamentalmente, non si sarebbe potuto prevedere un ulteriore articolo per rendere automatica l’indizione del referendum confermativo nel caso di modifiche apportate dal nuovo Parlamento a ranghi ridotti, immaginando o temendo un deficit di rappresentatività democratica anche nel caso di raggiungimento del quorum dei due terzi dei parlamentari favorevoli?

Molti dibattiti oggi stucchevoli non avrebbero avuto luogo.

Dir. politico Alessandro ZORGNIOTTI