Nove vittime al momento della pubblicazione di questo articolo, un crescente numero di dispersi e molte migliaia di sfollati rimasti senza un tetto
La pianura padana non si è mai sentita tanto fragile e vulnerabile quanto adesso, di fronte a un evento che a molti ha riportato alla mente la piena del Po del 1994. Con la sola differenza che, se all’epoca i disastri potevano essere imputati a scarsa manutenzione del territorio e a carenza di infrastrutture per il corretto assorbimento e smaltimento delle acque piovane e la canalizzazione dei corsi in piena, oggi è il cambiamento climatico a non rendere più sufficienti quegli accorgimenti infrastrutturali che in allora sarebbero bastati a fare fronte al rischio calamitoso.
La sopraggiunta mutazione del normale decorso delle stagioni e delle temperature ha dilatato enormemente i periodi di carenti o nulla precipitazioni rendendo sempre più terreni molto secchi e inidonei ad assorbire delle precipitazioni divenute nel frattempo più abbondanti, se non violente, e più concentrate nel tempo per effetto della maggiore densità di vapore acqueo in atmosfera.
Come ha ricordato il Presidente della Giunta regionale dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, in poche ore è piovuto quanto in due mesi di ordinarie piogge. Sembra uno scenario apocalittico, ma che secondo alcuni esperti minaccia di diventare uno stato ordinario con il quale dover convivere oltre la metà conta postuma di vittime e danni.
All’indomani della tragedia di Ischia, l’istituto Ispra, ente nazionale dedicato al monitoraggio e alla protezione ambientale, sin dalla fine dello scorso anno aveva certificato come la Regione attualmente devastata dalla valanga d’acqua fosse fra i territori più esposti in Italia a quel nuovo ciclo di disastri naturali e di eventi atmosferici avversi aggravati dal riscaldamento globale.
Il dossier, così elaborato, indicava in oltre 85.000 il numero delle famiglie emiliano romagnole residenti nelle aree a più elevata minaccia friabile e franosa, in pratica la metà dell’intera popolazione appennina sottoposta a tale drammatica eventualità.
Non solo: a rischio di inondazione risultava già essere all’incirca il 12 per cento dell’intera superficie regionale, con andamenti inquietanti destinati a estendersi a quasi la metà di essa.
A dicembre 2022, in Emilia Romagna erano in corso oltre 4000 cantieri per lavori finalizzati alla difesa del suolo e la prevenzione idrogeologica, oltre a 70 cantieri di protezione civile finanziati dal Pnrr per 61 milioni circa, mentre la Giunta regionale aveva candidato, ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, interventi per 900 milioni di euro.
Proprio il recovery plan sembra rappresentare l’ennesima occasione perduta per mettere in sicurezza un Paese bellissimo ma debole a livello morfologico e orografico: secondo la fondazione dell’alleanza per lo sviluppo sostenibile, sarebbero serviti investimenti, in tema di protezione territoriale dai cambiamenti climatici, pari a un terzo dell’intero budget del Piano, accompagnati da una riforma fiscale che prevedesse la fine completa dei sussidi ai settori energivori e l’attuazione anticipata della direttiva UE sul divieto di vendita dei veicoli a motore endotermico.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




