Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore
Tante volte mi è stato chiesto di raccontare la mia vita, gli elementi che hanno caratterizzato il mio successo, le occasioni che hanno fatto del mio percorso ciò che è stato, fino a permettermi di immaginare, creare e realizzare uno degli Istituti di Credito più importanti del nostro Paese. A tutti ho risposto e rispondo allo stesso modo: la mia è una vita fondata sulla semplicità. La semplicità delle mie origini, la semplicità e la coerenza delle mie scelte. A tutto ciò va aggiunta un pizzico di buona sorte, perché quella non guasta mai. La buona sorte di essere al momento giusto nel posto giusto, la buona sorte di fare al momento giusto la cosa giusta. Il resto è storia, e come tale fa parte del passato. Mi piace ancorarmi al passato, al mio in particolare, ma mi piace, ancora di più guardare avanti, proiettarmi verso il futuro, quello che desidero costruire, per me e per la mia grande famiglia, perché per me, ognuno dei miei collaboratori, è come se fosse parte della mia famiglia. Ma cominciamo dal passato. Dicevo della semplicità. La semplicità delle mie origini. Sono nato a Tombolo, un piccolo paesino a due passi da Padova, in una famiglia dove l’unica vera, grande ricchezza era l’amore che i miei genitori avevano per me e mia sorella Udilla. Eravamo poveri ma felici e la felicità non ci faceva mancar nulla. Mio padre faceva il mediato- re di bestiame. Si chiamava Alberto e con mia madre Agnese mi ha indicato la strada da seguire, una strada fatta di valori, di rispetto per il prossimo, di attenzione ad ogni mio comportamento. “Perché” mi ha sempre raccomandato “ognuna delle nostre azioni rappresenta un atto di nobiltà, verso noi stessi e verso il prossimo”. Mio padre mi ha instillato l’ottimismo di cui vado fiero. Lo ha fatto con chiari esempi di vita. Come quel giorno. Ero ancora ragazzino, ed ero disperato perché il mio idolo di allora, Fausto Coppi, non era riuscito a vincere un’importantissima tappa del Giro d’Italia. Avevamo ascoltato la radiocronaca in un bar del paese. Era il 30 maggio del 1953. Uscii in lacrime dal bar. Beffeggiato dai compagni che invece facevano il tifo per Bartali. Fu allora che mio padre mi fece capire che ci poteva essere un’altra occasione per poter far bene, che c’era sempre un’altra occasione. Mi disse, guardandomi negli occhi “Ennio, ricorda, c’è anche domani”. Lo disse con una forza tale che mi rincuorò in un attimo. Lo fui ancor di più il giorno dopo, quando Coppi vinse tappa e Giro. Per me fu una lezione importante. Da quel giorno, “C’è anche domani” è stato il filo conduttore della mia vita. Non a caso il racconto della mia biografia, il mio libro, quello in cui racconto la mia storia, l’ho intitolato proprio C’è anche domani (Sperling & Kupfler, 2014). Perché la vita dev’essere un inno all’ottimismo e l’ottimismo è stato il filo conduttore della mia vita. Ho sempre pensato che convenga essere ottimisti. Cosa ci si guadagna a pensare che tutto andrà male? All’ottimismo mi sono aggrappato anche quando da ragazzino mi ammalai di nefrite. Senza quella malattia, quasi sicuramente, la mia vita non sarebbe stata la stessa. Come i miei compagni di allora sarei andato a lavorare invece che a scuola. Ed invece, visto che non potevo fare sforzi o lavori pesanti, fu la mia famiglia a farlo perché potessi studiare. A scuola risultai il primo della classe e ciò mi permise, una volta diplomato, di trovare immediatamente posto in banca. Il periodo che passai in banca fu molto istruttivo. La maggior parte dei nostri clienti erano mediatori di bestiame, così come mio padre. Facevano orari assurdi. Era praticamente impossibile per loro riuscire a venire in banca nell’arco della giornata in cui lo sportello era aperto. Così ero io ad andare da loro. Consegnavo libretti di assegni, aggiornavo i loro depositi, ne favorivo i prelievi. Insomma, ero l’antesignano del consulente finanzia- rio di oggi, anche se, allora, quella figura neanche la si immaginava. Fu un periodo particolarmente importante della mia vita, anche perché fu proprio in quegli anni che conobbi Lina, mia moglie. Lei è la pietra angolare su cui tutto poggia. L’ho amata ogni giorno di più. Da allora. E lei ha ripagato tutto il mio amore dedicandosi a me, ai nostri meravigliosi figli Massimo e Sara. Moglie, mamma, oggi anche nonna. Senza Lina nulla sarebbe stato lo stesso. Quelli furono anni di radicali cambiamenti, non solo nella vita privata, ma anche in quella professionale. Tutto sembrava andare per il verso giusto. Ero soddisfatto del mio lavoro. In banca la carriera andava a gonfie vele, i miei superiori erano soddisfattissimi del mio lavoro ed il rapporto con i colleghi era dei migliori. Eppure. Eppure, non so perché, vivevo tutto con un pizzico d’insofferenza, come se, nonostante tutte le positività del momento, qualcosa nella mia vita fosse sul punto di cambiare. Fu un mio amico, Gianfranco Cassol, a dare il colpo di grazia alle mie scarse certezze: “Ti sei diplomato e su- bito dopo sei entrato in banca” mi ammonì “ma ti sei mai chiesto se era questo ciò che volevi davvero per la tua vita?”. Il lavoro in banca, il posto fisso, il posto sicuro. Allora tutti avrebbero voluto lavorare in banca. Ma non era quello che volevo per me. Lasciai l’istituto. Un grosso imprenditore della zona, si chiamava Marchiorello, mi offrì di andare a dirigere una delle sue aziende. Fu l’occasione che aspettavo, quella per prendere in mano il timone della mia vita. Lina appoggiò immediatamente ed incondizionatamente la mia scelta. Fu il primo passo verso la libertà. La mia. Fu un’esperienza entusiasmante. Un passaggio in più nella mia crescita personale.
Quell’esperienza mi fece capire quanto fossi a mio agio nel gestire le persone. Lo ero, principalmente, per- ché tenevo a ciascuno dei miei collaboratori come a me stesso. Ero soddisfatto ma non appagato. I miei incubi si erano dissolti. Guadagnavo più di quanto potessi fare in banca, ma non era quello a farmi sentire meglio: non era ancora ciò che desideravo per me. Non era quella la mia strada. Poi tutto accadde una mattina di primavera, nella primavera del 1969. Avevo appuntamento con Marchiorello. Lo raggiunsi con la mia Fiat 850. Lui mi aspettava con la sua Citroën Pallas. Salii in quella macchina e… In un attimo mi fu tutto chiaro. La differenza tra quell’auto e la mia, tra i sedili in pelle e quelli di plastica… I miei piedi affondavano nella moquette dei tappetini e il sistema idraulico della Citroën rendeva quell’esperienza ancora più confortevole. Non era semplicemente la differenza tra due auto. Era la differenza tra la sua vita, quella di Marchiorello, e la mia. Volevo anch’io una macchina così. Volevo anch’io una vita così. Marchiorello guidava l’auto che avrei voluto avere, in realtà era come se guidasse la mia vita. Era arrivato il momento che fossi io a guidare la mia. Fu in quel momento che decisi che avrei fatto l’imprenditore, che sarei stato solo io a tirare i fili che comandavano la mia vita. Fu ancora una volta Gianfranco Cassol ad indicarmi la strada. Lo incontrai. Aveva cambiato attività. Mi chiamò perché voleva che andassi a lavorare con lui. Ora si occupava di intermediazione finanziaria. Mi mostrò l’ultimo assegno delle provvigioni incassa- te grazie al suo lavoro. Tre milioni di lire. Si trattava di una fortuna per quei tempi. Ma non fui attratto dalla somma, seppur importante, ma da ciò che mi disse dopo. Mi parlò di fondi comuni l’investimento e di come rappresentassero la nuova frontiera del mondo del risparmio. Mi parlò di consulenza, di attenzioni per i clienti che incontrava ogni giorno. Tutte cose che mi erano note grazie alla mia precedente esperienza bancaria. Tuttavia ciò che mi fece comprendere che quella poteva essere la mia vera occasione fu il fatto che sarei stato pagato a provvigioni: avrei deciso io quanto avrei guadagnato. Il risultato finanziario della mia azienda personale sarebbe dipeso soltanto dal mio impegno e dalle mie capacità. E, soprattutto, nessuno più avrebbe potuto limitare le mie capacità. Avrei dovuto fare i conti solo con me stesso. Lina, fu subito al mio fianco, mi seguì con entusiasmo, spronandomi a seguire i miei sogni, i miei obiettivi, così come sempre avrebbe fatto in futuro. La mia avventura nel mondo della consulenza finanziaria era appena cominciata. Restai in Fideuram con Cassol fino al 1971. Il mese dopo entrammo in Dival del gruppo RAS. Lavorammo assieme per undici anni ancora. Poi le nostre strade si divisero. Furono anni di crescita, di risultati straordinari. Non mi concedevo neanche un giorno di vacanza, lavoravo anche di sera. Lina, pur di stare un po’ con me, mi faceva da autista e spesso mi aspettava fuori dalle case dei clienti che andavo ad incontrare. Tornavamo indietro assieme condividendo gioie e rammarichi, ma soprattutto davamo vita ai nostri sogni, ci raccontavamo, immaginandole, le case in cui avremmo voluto vivere, i viaggi che avremmo voluto fare, le occasioni che avremmo voluto regalare ai figli che avremmo avuto. In quegli anni nacquero Massimo e Sara, e furono gli anni in cui la mia vita e quella della mia famiglia, cambiarono davvero. Tutto sembrava andare nella direzione giusta, finché una sera… Era andato a trovare un nuovo cliente. Lina mi aveva accompagnato e mi aspettava fuori al volante della nostra auto. Era un falegname. Si affidò ai miei consigli. E decise di sottoscrivere i fondi che gli avevo proposto. Fu alla firma dell’assegno che quel falegname mi diede una lezione di vita che non dimenticherò mai e che ha finito per condizionare anche le mie scelte professionali successive. Devo tanto a quel falegname. “Lei è cosciente di cosa le ho dato?” disse mentre compilavo il contratto in tutte le sue parti. “Dieci milioni” risposi prontamente io girando l’assegno tra le mani. “Lei non ha capito” replicò lui. “Io le sto dando questi…”. Mi fece vedere le mani. Aveva dei calli mostruosi. Mani distrutte da ore e ore di lavoro. Mani che non avevo mai visto prima. “È questo che le sto dando con quell’assegno, non sono dieci milioni” riprese “Le sto dando il frutto del mio sacrificio, del mio impegno, delle ore che non ho potuto dedicare alla mia famiglia perché costretto a lavorare”. Poi aggiunse “Se lei farà bene il suo mestiere, se lei farà in modo da far fruttare il denaro che le ho affidato, allora potrò essere più sereno, potrò permettermi addirittura il lusso d’ammalarmi, perché ora proprio non potrei farlo: senza il mio lavoro, la mia famiglia non potrebbe andare avanti”. Chiusi il contratto. Lasciai quella casa in preda ad un forte senso di delusione. Rientrando ne parlai con Lina. A quel falegname sarebbe stata necessaria prima di tutto un’assicurazione che lo tutelasse da eventuali malattie ed infortuni ed io non potevo fargliela sottoscrivere. Noi avevamo solo prodotti finanziari. Non quelli assicurativi. Non c’erano in quel momento società che potessero davvero seguire a 360 gradi un cliente, gestirne ogni necessità finanziaria, utilizzando il prodotto adatto per risolvere ogni esigenza. E noi ci vantavamo di essere i medici del risparmio. Niente di più falso. Che medico sarei stato se avessi impiegato degli anni per risolvere il problema di salute del mio assistito? Quale paziente avrebbe mai scelto un medico così? Capii che se davvero volevo fare gli interessi dei miei clienti avrei dovuto avere ogni genere di prodotto dentro la mia valigetta. Fu in quel momento che ebbi l’idea della “Consulenza Globale”. Tra il dire ed il fare, però, spesso c’è di mezzo un ma- re in tempesta. Difficile da attraversare. Ormai, grazie a quel falegname, avevo capito in che direzione andare, tuttavia non avevo proprio idea di come farlo. Nel frattempo la mia struttura era cresciuta tanto e con essa i clienti e le masse di risparmio in gestione. Grazie all’incontro con uomini straordinari come Valerio Baldini, Silvio Cracco e Vittorio Colussi, il mio gruppo era diventato tra i più importanti all’interno del gruppo Dival. Ma non era abbastanza. Non per poter indurre quell’accelerazione epocale che avrei voluto realizzare nel mondo della consulenza finanziaria. L’incontro, fortuito, casuale, con Silvio Berlusconi, cambiò completamente la carte in tavola. Fu a maggio. Maggio del 1981. Era un giovedì. Con Lina andai a Genova per incontrare Victor Uckmar. Avevo bisogno di un suo parere fiscale per risolvere una querelle che aveva coinvolto quasi tutti i no- stri clienti. L’azienda se ne lavò le mani, ma io ed i miei collaboratori avevamo venduto quei prodotti ai nostri clienti: non potevo lasciarli in balia delle onde, né gli uni né gli altri. Scelsi Uckmar perché era il migliore. Una volta usciti dal suo ufficio, rinfrancato per quanto mi aveva detto, decisi di portare Lina a Portofino e fermarci lì per il fine settimana. Fu lì che lo incontrai. Per caso. Lui stava passeggiando da solo. Lo vidi da lontano. Lo riconobbi solo perché qualche giorno prima su Capital era stata pubblicata una sua intervista ed in prima pagina c’era anche una sua fotografia. Avevo letto quell’articolo. Lo conservavo gelosamente in un cassetto della mia scrivania. Quasi fosse una sorta di premonizione. “Se avete qualche idea e non sapete come realizzarla venite a parlarne con me” dichiarava il rampante e giovanissimo Silvio Berlusconi in quell’intervista. La sua avventura imprenditoriale e televisiva era solo agli albori, ma aveva già la capacità di attirare su di sé mille attenzioni. Ero rimasto affascinato nel leggere la sua storia. Mai avrei immaginato di vedermelo camminare di fronte. “È Berlusconi” dissi a Lina proprio nel momento in cui ci passò vicino. Forse alzai involontariamente il tono della mia voce. Lui, sentito pronunciare il suo nome, alzò la testa e guardò verso di noi. Ci sorridemmo. Andai verso di lui, vincendo un attimo d’imbarazzo, mi presentai stringendogli la mano. Scoprii che anche lui era lì per caso.
Qualcosa a Milano, nella sua giornata, non era andata per il verso giusto e così aveva deciso di correre a riparare a Portofino dove aveva una villa. Finimmo per cominciare a chiacchierare. Mi chiese cosa facessi. Gli spiegai ogni aspetto della mia attività. In pochi attimi comprese ogni cosa. Rimasi colpito dalla sua brillantezza. Non esitai. “Se avessi al mio fianco un imprenditore come lei” gli dissi “potremmo costruire l’azienda che diventerebbe il punto di riferimento per i risparmi degli italiani, l’azienda numero uno in Italia”. Non fece ulteriori commenti. Parlammo a lungo del più e del meno poi ci salutammo senza neanche prendere un appuntamento, senza neanche scambiarci i numeri di telefono. Dopo un po’, però, ci ritrovammo di nuovo: seduti a due tavolini diversi dello stesso bar. Ci guardammo. Ebbi la sensazione che avrebbe voluto continuare la nostra chiacchierata di prima. Avrei voluto farlo anch’io. Ma non accadde. Io restai al mio tavolo con Lina, lui al suo, da solo. Qualche giorno dopo mi chiamò in ufficio a Padova. Dopo il nostro incontro aveva preso ogni informazione necessaria per valutare ciò che gli avevo proposto. Aveva incontrato altri manager importanti delle maggiori società italiane: ora aveva una visione più chiara di tutto il settore. Programma Italia. Sarebbe nata il 2 febbraio del 1982. In pochi sanno che il 2 febbraio è il giorno in cui era nata mia madre. C’è chi crede nelle coincidenze. Che male c’è a credere nelle coincidenze? Io, però credo anche in un progetto più grande, un progetto in cui ciascuno di noi può fare la propria parte, per fare della propria vita un progetto e non solo un sogno. Ma sono certo che, quel giorno, anche da lassù, la mia mamma fece la propria parte nell’aiutarmi a realizzare il mio. Con Programma Italia io e Silvio Berlusconi avevamo gettato le basi di quella che sarebbe diventata in futuro Banca Mediolanum. La banca che è oggi. La crescita dell’azienda fu vertiginosa. Dodici anni dopo la sua fondazione, Programma Italia era diventata una delle protagoniste indiscusse nel panorama della promozione finanziaria in Italia. La rete di consulenti globali aveva superato e raggiunto le tremila unità e le masse di risparmio in gestione crescevano anno dopo anno segno della fiducia che molti risparmiatori stavano accordando al nostro nuovo modo di fare pianificazione finanziaria. Era arrivato il tempo di quotare l’azienda. Lo facemmo nel 1996. Al primo giorno di quotazione, dalle 12mila iniziali il valore di ogni azione salì fino a 15mila lire con richieste che superarono di oltre cinque volte l’offerta. Il mercato ci aveva premiato. Fu un successo. Con quell’operazione avevamo scritto un’altra pagina straordinaria della nostra storia: era nato il Gruppo Mediolanum. Ma quello era solo l’inizio della nostra nuova avventura, del nostro “Sbarco in Normandia”. L’anno dopo, infatti, a settembre del 1997, con una convention epocale, sancimmo la nascita di Banca Mediolanum. Sono passati vent’anni da allora ma, nei nostri cuori, il ricordo di quella giornata resterà scritto con inchiostro indelebile. La banca rappresentava l’ultimo tassello per completare il nostro cerchio attorno al cliente, per mettere a disposizione del mio “falegname” qualunque tipo di prodotto finanziario fosse necessario per risolvere le sue esigenze di gestione di risparmio. La banca era il tassello più importante. Le reti di promotori finanziari in quegli anni si erano mosse correttamente, tuttavia non riuscivano a gestire più di una quota marginale delle masse di risparmio degli italiani: il confronto con le banche non poteva reggere. Le banche rappresentavano i granai di un tempo. Nelle banche si crea il risparmio ed è lì che ne restava la maggior parte. Se volevamo diventare grandi avevamo bisogno di diventare banca anche noi. Ora anche quel passo era fatto. Ma volevamo andare oltre. Volevamo rappresentare per i risparmiatori ciò che le banche non erano mai state per loro. Volevamo liberarli da un giogo di sudditanza che aveva da sempre contraddistinto il rapporto risparmiatore – istituto di credito. Noi abbiamo immaginato la banca come il vero partner della nostra clientela. Il cliente era il nuovo centro del sistema. La banca si sarebbe trasferita direttamente a casa sua ed il nostro Family Banker avrebbe incarnato la figura del banchiere del nuovo millennio, un professionista capace di supportare il cliente per tutte le necessità che avesse avuto in termini di gestione del risparmio. La mia banca l’ho voluta trasparente perché solo la conoscenza rende l’uomo veramente libero. Quando si hanno tutte le informazioni si possono compiere scelte consapevoli. Le banche prima erano tutte uguali. Cambiare banca non serviva: era necessario che prima fossero gli istituti a cambiare. E noi abbiamo voluto dare il la a questo cambiamento. E abbiamo continuato a farlo dall’interno del sistema, andando contro il sistema, diventando anche un po’ antipatici al sistema. Ma avevamo capito che le cose stavano cambiando e stavano cambiando in fretta. Ma neanche noi immaginavamo tanto. Non immaginavamo che da lì a pochi anni sarebbe arrivata una tempesta che avrebbe spazzato via colossi bancari che avevano fatto la storia di questo settore non solo nel nostro Paese, ma nel mondo. Era l’estate del 2007. Partita dagli Stati Uniti, la bufera ha scosso prima e violentemente il continente americano, ma poi ha attraversato l’oceano arrivando fino a noi, ridisegnando, stravolgendolo, il mondo a cui eravamo abituati. In questi dieci anni abbiamo visto crollare come “ca- stelli di sabbia”, banche che credevamo imperiture e capaci di attraversare indenni anche l’incedere del tempo. L’apice della crisi un anno dopo, a settembre del 2008, con il fallimento di Lehman Brothers che ha fatto da spartiacque: segna un prima e un dopo. E il dopo lo stiamo ancora vivendo. “Dopo” abbiamo fatto i conti con i mutui subprime, con l’innalzarsi dello spread, con l’entrata in fibrillazione dei conti di intere nazioni. Persino l’euro, ha rischiato di non reggere e di crollare sotto il suo stesso peso. Abbiamo preso atto che il debito pubblico non è qualcosa di cui ci si può dimenticare. Ci siamo dovuti confrontare con il bailin e con le banche che falliscono anche nel nostro Paese. CariChieti, CariFerrara, Etruria e Banca Marche e poi Veneto Banca, Popolare di Vincenza non esistono più, così co- me non ci sono più tanti altri piccoli istituti. Per non parlare della profonda crisi attraversata dal Monte dei Paschi, salvata per il rotto della cuffia, quando il baratro che le si era aperto davanti appariva come un pozzo senza fondo, un pozzo sempre più difficile da riempire. “Dopo” abbiamo visto sparire le nostre certezze, le nostre garanzie: lavoro, pensioni, risparmi. Sono crollati i tassi d’interesse e siamo diventati sempre meno capaci di remunerare i nostri risparmi. Ma questi anni di crisi epocale hanno rappresentato la nostra migliore occasione di successo. Mentre i dinosauri sparivano dopo la caduta del meteorite noi, mammiferi agili e veloci, ci siamo adattati al cambiamento. Al cambiamento dettato dalla tecnologia, al cambia- mento dettato dall’avere il cliente sempre al centro. In virtù di questa filosofia abbiamo rimborsato i nostri clienti che erano rimasti coinvolti nel fallimento dela banca d’affari americana, siamo stati vicini ai nostri clienti in difficoltà, soprattutto quelli “toccati” dalle tante calamità naturali che hanno colpito in questi anni il nostro Paese. Il nostro modo di essere altruisti ci ha permesso di essere egoisti. Finalmente tutti, tanti, si sono accorti che il nostro era davvero un modo diverso di fare banca. E la fiducia nei nostri confronti è esplosa. Le nostre masse sono cresciute a dismisura. Mentre gli altri scappavano dai mercati in fibrillazione io “urlavo” ai miei di “non aver paura”, di mantenere i nervi saldi. Abbiamo lanciato strumenti d’investimento capaci di sfruttare proprio le oscillazioni dei mercati in modo da dare utili e remunerazione ai risparmi che i nostri clienti ci avevano e ci stanno affidando. Mentre i “castelli di sabbia” intorno a noi crollavano, noi abbiamo continuato a crescere. Siamo stati anche fortunati. Nati come banca alla fine del millennio, abbiamo letto prima degli altri i cambiamenti che la tecnologia avrebbe portato. Così abbiamo scelto di non avere sportelli, minimizzando i costi e migliorando la qualità dell’offerta di consulenza e di digitalizzazione della nostra clientela. Abbiamo orientato i nostri maggiori investimenti proprio sullo sviluppo tecnologico, abbiamo creato collaborazioni con le più importanti realtà mondiali del settore, ed abbiamo messo a disposizione della nostra clientela strumenti di gestione e pagamento addirittura all’avanguardia rispetto a ciò che c’era e c’è a disposizione nel nostro Paese. È stata anche questa la forza del nostro successo. Mentre gli altri istituti, anche a causa della crisi tremenda che stavamo attraversando, perdevano miliardi di euro in bilancio, la nostra crescita andava nella direzio- ne opposta tanto che la nostra solidità è diventato uno degli aspetti distintivi della nostra forza anche a livello europeo. Il resto, la mia storia e quella della famiglia Mediolanum che rappresento, è la storia dei nostri giorni. È la storia della crescita professionale dei miei figli, Massimo a capo della Banca, Sara a capo della Fondazione. Loro rappresentano il miglior passaggio generazionale che potessi mai desiderare. Ma quella dei nostri giorni è una storia di ripresa, la ripresa del nostro Paese, della nostra straordinaria Terra, la ripresa dell’Italia. A questa rinascita, a questo nuovo rinascimento delle imprese di casa nostra vogliamo partecipare da protagonisti, perché vogliamo lasciare un segno positivo ed indelebile nella storia italiana. È per questo che, quando con l’ultima Legge di stabilità, anche nel nostro Paese sono stati lanciati i Piani Individuali di Risparmio (PIR), abbiamo compreso che anche noi avremmo potuto fare la nostra parte per risollevare le sorti della nostra cara Italia. I PIR legano il risparmio all’economia reale, legano il risparmio alle imprese del nostro Paese. Ne possono avere vantaggi importanti proprio i risparmiatori a cui vengono azzerate le imposte sugli interessi e sugli utili, i cosiddetti capital gain, ed eliminate le tasse di successione; ne possono avere vantaggi le imprese italiane che, finalmente, possono liberarsi dal finanziamento bancario per ricevere linfa e sostanza proprio dal mondo del risparmio. Noi come banca siamo al centro di questo sistema. Per questo abbiamo deciso di informare tutti i nostri clienti e non solo. Per questo abbiamo deciso di coinvolgere Confindustria e tutte le imprese italiane. Perché questa nuova opportunità possa diventare l’opportunità di tutti, l’opportunità del Paese. Del resto le nazioni che prima di noi hanno seguito questa strada, l’Inghilterra, la Francia, il Giappone ne hanno testimoniato l’efficacia proprio con i numeri, tutti a vantaggio di risparmi ed imprese: entrambi in crescita. Noi siamo al centro di questo sistema, rappresentiamo il ponte di collegamento tra il risparmio e le imprese, vogliamo dare l’esempio. Grazie a quello che abbiamo fatto in tanti ci stanno seguendo. Sulla stessa strada. I PIR stanno diventando una realtà anche da noi e le più rosee previsioni dei tecnici del Ministero delle Finanze sono già state abbondantemente riviste verso l’alto. Facciamo la nostra parte. Com’è giusto che sia. Noi ci siamo. Oggi. Ci saremo domani. Perché la promessa che ho fatto a me stesso a Lina ed ai miei figli, la promessa che ho fatto a mio padre, la promessa indirettamente fatta a quel falegname, possa essere una promessa mantenuta. Oggi. Spesso mi guardo indietro. Rivedo e ripenso con piacere ad ogni giorno della mia avventura ed a tutti coloro che l’hanno condivisa con me. Oggi. Nonostante tutto quello che abbiamo già fatto, sono certo che l’avventura sia appena cominciata e che la parte più entusiasmante sia ancora tutta da scrivere.


