“ESSERE ORIGINALI” Da Robert Redford a Brigitte Bardot di Mario Vespasiani

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C’è stato un tempo, non troppo lontano eppure sostanzialmente distante, in cui il carisma non era il risultato di un calcolo algoritmico e lo stile non nasceva in una sala riunioni di marketing
Era il tempo in cui certe figure apparivano improvvisamente al mondo non quali prodotti replicabili, ma come eventi atmosferici: imprevisti, naturali, definitivi.
Brigitte Bardot e Robert Redford sono le stelle di una stagione irripetibile del Novecento. Non volti prestabiliti, ma presenze organiche, impossibili da progettare. La Bardot non si limitava a “interpretare” uno stile: lo era.
La sua attitudine selvaggia non chiedeva permesso, non cercava il consenso universale, né si preoccupava di essere accomodante, era libera, spesso scomoda, per alcuni scandalosa proprio perché non addomesticata.
Ciò che rende Bardot e Redford figure di una modernità sconcertante non è tanto il modo in cui hanno abitato la celebrità, ma il modo in cui hanno preferito sottrarsene e in un mondo che impone la presenza costante come unica garanzia di esistenza, la loro scelta è stata l’atto più radicale di indipendenza stilistica.
BB ha abbandonato il cinema all’apice del successo, non per mancanza di offerte, ma per un rifiuto ontologico: non si riconoscendosi più nello sguardo che l’industria posava su di lei. Ha rifiutato di invecchiare come una caricatura di sé stessa sotto i riflettori, scegliendo di esistere senza più rappresentarsi.
RR ha compiuto un gesto speculare: non si è limitato a recitare, ha costruito alternative strutturali. Il Sundance Institute non è stata solo una sua intuizione, ma una presa di posizione culturale: cogliendo prima di tutti che il vero potere non è occupare il centro della scena, ma creare spazio per voci non allineate.
Oggi siamo ossessionati dal “controllo dell’immagine”, un istinto spesso isterico, reattivo, dettato dal terrore dell’oblio mentre Bardot e Redford esercitavano un controllo diverso, tutto loro.
Non spiegavano, non giustificavano, non correggevano la percezione pubblica. Bardot accettava di essere fraintesa, senza addolcire la sua figura spigolosa. Redford lasciava che fosse il lavoro a parlare, mantenendo una distanza emotiva che lo ha preservato dal cannibalismo mediatico.
La differenza cruciale è che oggi l’immagine viene gestita, da loro veniva abitata. Questi due divi non erano stati “progettati” per durare nel senso contemporaneo del termine, ovvero per attraversare i decenni adattandosi camaleonticamente alle mode. Erano figli di un momento preciso, portatori di tensioni e contraddizioni che li rendevano unici proprio perché non “ottimizzati” per piacere a tutti.
Le copie sono fatte per apparire; gli originali ardono intensamente e lasciano il segno, anche quando scompaiono. C’è un prezzo da pagare per l’originalità, un elemento poco considerato ma essenziale: la riservatezza (si potrebbe dire anche la solitudine, se non suonasse malinconico).
Essere originali non significa essere amati all’unanimità; vuol dire non essere assimilabili. È forse questo che manca oggi: il coraggio di accettare il rischio di non piacere, di non rientrare in una categoria, di non essere replicabili. L’eredità di Bardot e Redford non sta dunque in ciò che si può copiare — i capelli, i tratti, il fascino — ma in ciò che non si può trasmettere: l’audacia di non diventare un modello standardizzato, ricordandoci che il vero lusso, in un mondo di repliche, è di non somigliare a nessuno.
Attraverso la loro assenza, continuano a impartirci una lezione essenziale: la vera forza carismatica non sta nell’essere funzionali alle aspettative altrui, ma nella propria visione e anche nel sapere quando dire basta.
Infine, c’è il rapporto con il tempo: gli originali non lo combattono, non cercano di ringiovanire o di aggiornare freneticamente la propria immagine per restare “rilevanti”. Accettano il tempo come un alleato che sedimenta e dà spessore. Le copie, al contrario, vivono nel terrore dell’obsolescenza.
Anche noi (come artista e con la mia musa Mara) abbiamo sempre tenuto presenti gli archetipi millenari e una visione di lungo respiro, non le mode. E così gli originali non rincorrono il presente, lo abbracciano col fare sicuro di chi non è condizionato dall’opinione altrui. Allora in una società che chiede continuamente di essere “coerenti”, “riconoscibili”, “vendibili”, la loro lezione ci tocca: la vera autorevolezza sta nel guardarsi allo specchio e vedersi non più belli o famosi ma evolvere.

Mario Vespasiani (1978) è un artista visivo visivo ed intellettuale italiano. Al suo lavoro sono state dedicate 48 pubblicazioni, ha ideato la rassegna sul pensiero contemporaneo Indipendenti Ribelli e Mistici. Ha realizzato un centinaio di canzoni racconte in cinque album. Ha esposto in tutta Italia in grandi musei e gallerie e in dialogo con maestri quali Mario Schifano, Osvaldo Licini, Lorenzo Lotto, Mario Giacomelli e Francisco Goya