Il dibattito pubblico, si sa, è sempre scivoloso. Lo diventa ancor di più quando si intreccia con una crisi economica globale che costringe milioni di persone a rivedere abitudini, priorità e certezze. In questo clima instabile, pochi temi dividono quanto la guerra e la sua controparte, la pace. Parliamo del conflitto incistato nel cuore dell’Europa, tra Russia e Ucraina. All’indomani dell’attacco russo sferrato nel 2022, la condanna fu pressoché unanime. Un fulmine a ciel sereno, un’aggressione efferata: chi non ricorda Bucha? Quasi tutti, in un modo o nell’altro, riconoscevano a Zelensky – e all’Occidente – il diritto alla difesa.
Col passare dei mesi, mentre la “guerra lampo” si rivelava una previsione fallace e il fronte si impantanava, sono emersi i primi distinguo. Il partito dei pacifisti ha cominciato a ingrossarsi, fino a diventare oggi una forza mediatica e politica non trascurabile. Va detto con chiarezza: il pacifismo sincero, quello che nasce da una tensione etica e da una volontà di protezione della vita umana, merita rispetto. Ma non tutte le posizioni che si richiamano alla pace sono uguali. Alcune, purtroppo, sembrano ignorare il contesto e finiscono per legittimare – anche involontariamente – l’aggressione.
Che il conflitto nel Donbass fosse già acceso dal 2014, come ripetono i filorussi, è vero. Ma è Mosca che ha trasformato quella tensione in guerra ad alta intensità, invadendo un Paese sovrano e bombardandolo ufficialmente. La riflessione parte da lì. Come ci si deve porre di fronte a un attacco frontale, dichiarato, da parte di uno Stato contro un altro? Con il senno di poi, l’Europa avrebbe dovuto voltarsi dall’altra parte e lasciare che Kiev se la sbrigasse da sola? Avrebbe dovuto accettare l’affronto nel cortile di casa, in nome di una pace rapida e di pochi – relativamente pochi – morti?
Qui le linee di pensiero divergono. C’è chi, all’interno della NATO, ha appoggiato la linea della difesa esterna, come poi è accaduto. C’è chi avrebbe voluto mandare truppe fin dal primo istante. E c’è chi, col passare del tempo, ha cominciato a manifestare mal di pancia sempre più forti. Dopo tre anni e mezzo di guerra, con migliaia di morti – civili e militari – e una girandola di propaganda che rende incerto ogni bilancio, sembra quasi avere ragione chi invoca una (mi si consenta l’ossimoro) “pace ingiusta”, fondata cioè su compromessi dolorosi.
Ma attenzione: il campo delle opinioni è, come sempre, accidentato. C’è chi sostiene di aver sempre difeso la pace, e chi, aggiuntosi in corsa, oggi afferma che è stato un errore imbarcarsi in questa guerra per conto della NATO e dell’Europa. Basta osservare come, nel tempo, molte testate di rilievo abbiano sfumato la loro posizione iniziale, passando da una condanna netta dell’aggressione a una lettura più problematica del ruolo occidentale. A questa tendenza si affiancano gli interventi di analisti e influencer geopolitici, sempre più presenti nelle piazze virtuali dei social, tornati alla ribalta con l’ascesa di Trump. Un Trump il cui distacco strategico ha finito per offrire – almeno sul piano mediatico – una sponda indiretta alla narrativa del Cremlino, restituendo a Putin una dimensione diplomatica che le sue scelte belliche avevano da tempo compromesso.
Ebbene, il punto è sempre lo stesso. Chi ha davvero ragione in questa disputa infinita?Chi avrebbe permesso, senza colpo ferire, l’annessione dell’Ucraina al prezzo di una pace rapida e qualche migliaio di morti? Oppure chi si è opposto fin dal primo momento alla logica della forza, alla violazione del diritto internazionale, all’invasione di un popolo che aveva scelto – legittimamente – di allontanarsi dal controllo russo?
Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, al marzo 2025, i civili uccisi sono almeno 12.910, con oltre 30.700 feriti. Le perdite militari complessive da entrambe le parti superano il milione, secondo stime incrociate di intelligence occidentali e analisti indipendenti. I rifugiati ucraini registrati all’estero sono oltre 6 milioni, mentre gli sfollati interni superano i 3,7 milioni (fonte: UNHCR).
Nulla di tutto questo riduce la responsabilità del Cremlino per Bucha, Mariupol o le fosse comuni. Ma interrogarsi sugli errori dell’Occidente non è un esercizio di autoassoluzione: è il tentativo di capire se l’occasione per fermare la catena di orrori sia stata persa per calcolo, inerzia o mancanza di visione strategica.
Gianvito Pipitone


