FINISCE L’EFFETTO COVID SUI FONDI DI GARANZIA, A RISCHIO 11.000 AZIENDE

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Mentre il governo Draghi, nella più recente formulazione del decreto aiuti, cosiddetto ter, ha introdotto un capitolo di garanzie pubbliche speciali dedicate alle imprese energivore per l’ottenimento di finanziamenti utili a fare fronte ai rincari delle bollette e a evitare la sospensione dei processi produttivi, stanno giungendo a scadenza quasi simultanea – con il conseguente obbligo per i beneficiari di avviare il rimborso delle rate – i prestiti scaturiti dalle garanzie covid introdotte nel 2020 dall’allora premier giallorosso Conte all’indomani dello scoppio della prima ondata pandemica da coronavirus.

 

La concomitante venuta meno delle moratorie sugli affidamenti bancari precedenti all’insorgere della pandemia, e della copertura di Stato su quelli deliberati ed erogati dagli istituti di credito a decorrere dalla primavera del 2020, sta concretizzando i timori che erano stati espressi dal presidente dell’associazione bancaria italiana, Antonio Patuelli, tra la fine del 2021 e subito dopo lo scoppio della guerra russa in Ucraina nel marzo di quest’anno.

Il conto delle potenziali sofferenze è impietoso: si parla di 100.000 partite Iva a rischio di cessazione o drastica riduzione dell’attività economica, e di 11 miliardi di euro in bilico su un totale di 250 miliardi assistiti al cento per cento dal fondo di garanzia presso il ministero dello sviluppo MISE.

La rilevazione si trova contenuta in un report realizzato in forma aggiornata dal centro studi Temporary manager.

Si può parlare della diretta materializzazione di uno scenario che si sarebbe potuto facilmente prevedere fin dalle origini, fin da quando cioè l’Italia, per ragioni di ridotti o nulli margini fiscali nel proprio bilancio statale, a differenza degli altri grandi Paesi UE e atlantici nostri diretti concorrenti industriali, scelse di ridurre ai minimi termini la quota di fondo perduto sul fatturato aziendale annullato dal covid per delegare al settore delle banche l’incombenza di provvedere ai flussi di liquidità essenziali a scongiurare fallimenti o chiusure a catena.

Adesso, in versione e misura ridotta, il medesimo copione sta avvenendo per il capitolo relativo agli strumenti con cui fronteggiare l’aumento tariffario di luce e gas nelle bollette in arrivo o già arrivate nella corrispondenza postale degli imprenditori. Questo mentre a Londra piuttosto che a Berlino o a Madrid, ancora una volta, ogni Governo nazionale di quella che dovrebbe essere la declamata “Comunità politica europea” – appena riunitasi a Praga – ha deliberato interventi in proprio di copertura degli extra-costi finali, di riduzione della tassazione diretta e indiretta sui consumi energetici e di imposizione di tetti massimi alle pretese delle società di fornitura e di distribuzione il più delle volte pubbliche o a partecipazione pubblica statale o dell’ente istituzionale locale.

Tutte soluzioni rispetto alle quali il Governo Draghi si è limitato a giocare di rimessa o in difesa, limitandosi a sollecitare Bruxelles a intervenire con la fissazione di un price cap europeo ben sapendo che Germania e Olanda avrebbero posto il proprio veto a una simile eventualità.

Per la seconda volta, allora, si cerca di promuovere il coinvolgimento delle banche per reperire le risorse, a prestito e quindi a debito per le aziende richiedenti, per fare fronte al rischio di dovere interrompere una catena produttiva già di per sé imbrigliata dalla ridotta disponibilità, oltre che dalla maggiore onerosità sul mercato di alcune materie prime, basti pensare alla anidride carbonica occorrente alla preparazione del beverage e delle bevande frizzanti che formano uno dei pilastri di identità e identificazione del made in Italy nel mondo.

La questione è che, alla base di tutto, per quanto si cerchi di intervenire sulla quantità di garanzie pubbliche erogabili dal competente fondo presso il MISE o presso la SACE, la società di assicurazione del commercio estero per le compagnie di dimensione economica e occupazionale maggiore, non cambia la qualità delle normative che vincolano le banche a seguire criteri di tipo previdente e prudenziale nella valutazione di merito delle richieste di prestito.

Non è un caso che, adesso, molte istanze, formulate dalle imprese debitrici per ottenere uno stralcio parziale delle esposizioni a scadenza, siano respinte dai deliberanti bancari, poiché le garanzie concesse dal fondo pubblico statale fanno mutare il debito in credito privilegiato a favore dello Stato stesso in caso di default aziendale.

La dimostrazione di come sia stato utilizzato malamente, sia da Conte sia purtroppo anche da Draghi, lo strumento degli scostamenti di bilancio, della sospensione del fiscal compact da parte di Bruxelles e del quantitative easing concesso dalla BCE e ora trasformato in scudo antispread a condizionalità, in pratica un bis del famigerato meccanismo europeo di stabilità MES.

Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI