La leader di Fratelli d’Italia ha ufficializzato un punto programmatico molto importante al fine di ristabilire un fondamentale principio di equità fiscale e sociale in perfetta coerenza con i principi fondamentali e con la prima parte della nostra Costituzione
Sta creando molti fronti di discussione l’esternazione di Giorgia Meloni, indicata da pressoché tutti i sondaggi come la candidata di fatto alla presidenza del Consiglio dei Ministri in caso di vittoria del centrodestra, in tema di ristabilimento di condizioni di parità di trattamento fiscale tra gli imprenditori nostri connazionali e i colleghi di origine straniera operanti in Italia.
Che cosa ha dichiarato in sostanza la leader del partito che ha raccolto l’eredità del movimento sociale e di Alleanza nazionale? Molto semplicemente, che chi decide di avviare un’attività economica nel nostro Paese, provenendo dall’estero, è il benvenuto però, all’atto di comunicare l’avvio dell’impresa, e in ogni caso prima di iniziare in concreto a lavorare, deve versare una garanzia, o fideiussione, che assicuri in ogni momento il pagamento delle imposte, tasse e contributi dovuti ai sensi di legge per la categoria di azienda intrapresa.
Giorgia Meloni ha fatto in particolare riferimento ai cittadini di nazionalità extracomunitaria, e non a caso: qui la xenofobia non c’entra assolutamente nulla, a rilevare sono le evidenze statistiche prodotte dalla guardia di finanza con specifica riconduzione al fenomeno della imprenditoria cinese in Italia. Non solo però: le cronache economiche e sociali sono piene di imprese, anche di una certa consistenza dimensionale e occupazionale, il cui controllo estero fa sì che, a un certo punto, stranamente l’Italia non convenga più e lo stabilimento debba essere cessato e dismesso. La vicenda ex Whirlpool Embraco Ventures, a Riva di Chieri vicino a Torino, ne è un emblema tragico e doloroso, ancora di più se si considerano le ingenti risorse finanziarie pubbliche – le nostre – messe a disposizione da Stato e Regione per impedire la deindustrializzazione del sito.
Quindi il tema è reale e assume una certa valenza per il mercato e il sistema sociale italiano, che a oggi presenta strumenti molto deboli e molto poco efficaci per contrastare atti non di rado di valenza predatoria o comunque speculativa volta a lucrare e massimizzare i benefici previsti da alcune falle del nostro ordinamento.
Partiamo con ordine: quando un cittadino, sia esso nostro connazionale o di altra nazionalità, decide di aprire un negozio o una bottega, di solito nel corso del primi due anni non subisce particolari controlli pubblici, poiché gli obblighi dichiarativi di legge in ambito di fiscalità diretta e indiretta iniziano a scattare almeno diciotto mesi dopo l’avviamento. Inoltre, la fase iniziale è contrassegnata da una serie di altre agevolazioni, a partire dalla fiscalizzazione degli oneri sociali e contributivi, che si traduce in un importante sconto sull’assicurazione obbligatoria da versare all’INPS, posta in buona parte a carico dello Stato, cioè della fiscalità generale, nel periodo in questione.
Il fenomeno che, con attenzione alle comunità asiatiche soprattutto, e cinesi in tale ambito, è stato posto sotto i riflettori della guardia di finanza, è stato soprannominato, dagli stessi investigatori delle fiamme gialle, con la formula “apri e chiudi”. Il nuovo imprenditore non comunitario, proveniente dall’estremo Oriente, intraprende la propria attività in maniera in apparenza integerrima, addirittura utilizzando il registratore di cassa, poi però allo scadere del diciottesimo mese o del secondo anno, si verifica un cambio di gestione, spesso nell’ambito della stessa nazionalità, e la gestione precedente viene a caratterizzarsi come un vero e proprio insoluto fiscale e contributivo del quale nessuno sembra più in grado di rispondere. Nel frattempo, però, il gestore iniziale ha beneficiato di agevolazioni contributive, sgravi di vario tipo e addirittura di provvidenze monetarie pubbliche in quanto formalmente cittadino disagiato a reddito zero o quasi.
In Italia si calcola che le aziende condotte da cittadini originari del Paese della grande muraglia siano oltre 50.000, in pratica una ogni 9 residenti di nazionalità cinese.
Emblematico il caso della regione Veneto, dove risiedono quasi 46.000 cittadini dalla nazione del dragone che esprimono oltre 7200 imprese, negozi e botteghe, la cui attività dichiarativa è a dir poco sconfortante. Soltanto un cinese su 5 presenta una denuncia fiscale, che in un caso su due è a reddito zero e in un caso su cinque comunica meno di 6000 euro.
Eppure, il passivo lasciato in eredità dai cambi di gestione supera i 2 miliardi di euro tra tasse, imposte e contributi, dei quali appena ottanta milioni sono stati riportati nelle casse erariali.
Mentre le attività di accertamento condotte alle dogane hanno permesso di appurare che sono milioni gli euro che in contanti si cerca di portare in Cina, presumibilmente gli incassi delle attività di cui sopra, quando non si utilizzano i canali del Money transfer.
La proposta di istituire una garanzia fiscale su chi intenda effettuare un investimento economico in Italia – garanzia che dopo vicende come la ex Embraco dovrebbe essere estesa alla voce salariale – non è espressione di una vocazione autarchica; semmai è il tentativo, di civiltà legale e tributaria, di evitare di importare il dumping sociale e la concorrenza sleale in casa propria.
Dir. politico Alessandro ZORGNIOTTI




