All’ONU, Netanyahu ha parlato come un generale che non ha più tempo da perdere: “Finire il lavoro contro Hamas”
Ha elencato le vittorie, ha ricordato i volantini e le telefonate con cui Israele avverte i civili prima di bombardare, ha ammonito il mondo: riconoscere oggi uno Stato palestinese significherebbe premiare il terrorismo.
Mentre parlava, i numeri facevano il loro mestiere silenzioso: valichi chiusi, consegne di cibo dimezzate, ospedali senza medicine, bambini che muoiono di sete. È il solito contrasto fra la lingua della politica e quella della realtà. La prima promette ordine, precisione, chirurgia. La seconda restituisce solo macerie e cadaveri.
Ora, la questione è giuridica quanto morale. Perché parlare di genocidio significa accusare un governo di voler distruggere un popolo. È l’accusa più grave che esista. E in tribunale serve la prova regina: l’intento. Oggi questa prova manca. Netanyahu e i suoi ministri parlano di Hamas, non dei palestinesi. Parlano di sicurezza, non di annientamento.
Ma la storia ci insegna una lezione amara: anche in altre epoche, all’inizio, non c’era mai scritto nero su bianco “distruggere un popolo”. C’erano parole anodine: ricollocamento, evacuazione, trasferimento. C’era la retorica della difesa, della purezza, dell’ordine. Nessun proclama di sterminio. Eppure l’intento c’era, e con gli anni è venuto allo scoperto.
Ecco allora il dubbio che ci accompagna oggi: se giudicassimo col metro dei soli documenti ufficiali, nemmeno allora, negli anni Trenta, avremmo potuto parlare di genocidio. Avremmo detto che mancava la prova, che le misure erano dure ma “provvisorie”, che il fine dichiarato era un altro. Avremmo avuto la sensazione di camminare sul ciglio di un baratro, senza poterlo chiamare con il suo nome.
A Gaza siamo forse nello stesso punto: davanti a un orrore che cresce, a condizioni di vita insostenibili, a un linguaggio che disumanizza, ma senza l’ordine scritto che riveli l’intento finale. Mancano le parole, ma i fatti già parlano.
La Corte internazionale si è fermata a “plausibile rischio”. Un’espressione giuridica che serve a guadagnare tempo. Ma il tempo non aspetta. Non lo aspetta la fame, non lo aspetta la sete, non lo aspettano i bambini che muoiono ogni giorno.
Non occorre evocare fantasmi per capire che il punto non è se ci sia già un genocidio, ma se stiamo guardando in faccia i segni che non vogliamo riconoscere. E se, come allora, solo dopo sarà troppo tardi per dire che c’erano tutti.

