GORBACIOV, L’ULTIMO SALUTO: BUTTÒ GIÙ IL MURO, MA NON IL SOVIETISMO

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L’ultimo leader sovietico si è spento nella sua Mosca all’età di 91 anni compiuti lo scorso marzo: dimenticato e mai del tutto amato in patria, negli anni ottanta del Novecento diventò, con l’amata moglie Raissa al proprio fianco, un’autentica icona per l’Occidente, contribuendo prima all’allentamento delle tensioni militari e della competizione al riarmo tra Est e Ovest, poi al superamento della Guerra fredda simboleggiato dalle picconate inferte al muro di Berlino

È diventata leggenda la sua amicizia personale con il presidente statunitense Ronald Reagan, leader indiscusso dei conservatori del mondo libero e della dottrina liberista applicata alla politica economica, e come presidente dell’URSS è entrato nella Storia per essere stato ricevuto da Papa Wojtyla, le cui origini polacche lo portavano a incoraggiare ogni serio tentativo di introdurre elementi di democrazia e di abbandono del materialismo e del totalitarismo ateista nei Paesi del patto di Varsavia.

Nel corso dei molti e innumerevoli tour compiuti nelle capitali occidentali, egli aveva una predilezione speciale per l’Italia, tanto che nel 1985 l’allora Premier italiano Bettino Craxi fu il primo capo di Governo di un Paese dell’Ovest a essere ricevuto a Mosca da Gorbaciov appena eletto al vertice del PCUS, il partito comunista sovietico; negli anni successivi, il leader dell’URSS si recò a Roma a più riprese per siglare accordi volti a favorire una presenza tricolore nel vastissimo arcipelago di un’economia che voleva affrancarsi dalla cultura del piano quinquennale eredità dello stalinismo alienante.

L’attivismo di stampo gorbacioviano conquistò le opinioni pubbliche occidentali, ma in patria la pratica applicazione dei dettami della glasnost e della perestrojka (trasparenza e ristrutturazione economica e istituzionale) suscitò malumori e malcontenti diffusi, non soltanto tra le componenti più conservatrici e reazionarie del PCUS, ma altresì fra coloro che auspicavano un miglioramento da riforme che viceversa rendevano più grave la condizione sociale di larghi strati di popolazione.

I provvedimenti varati da Gorbaciov ebbero infatti, come conseguenza principale, un effetto di sgretolamento del regime sovietico moscovita e dei sistemi totalitari dei Paesi satelliti, aprendo la via all’autodeterminazione e alle dichiarazioni di indipendenza, la più clamorosa delle quali fu quella proclamata da Boris Eltsin come Presidente della Repubblica socialista di Russia, la cui uscita dai vincoli dell’URSS segnò di fatto la dissoluzione irreversibile dell’Unione.

A nulla valse il tentato golpe da parte dell’ala del partito unico contraria alle riforme, compiuto nell’estate del 1991 mentre Gorbaciov si trovava a trascorrere una breve vacanza in Crimea, e intorno al quale aleggiano tuttora versioni non univoche e discordanti in merito alla sua origine. Sta di fatto che tale avvenimento sancì la definitiva uscita di scena di Gorbaciov a favore di Eltsin – mentore e padrino politico di Putin e della ristretta setta degli oligarchi – che aveva trasmesso di sé l’idea dell’uomo forte al comando in grado di bloccare i golpisti e di traghettare la Russia verso nuovi lidi. Quali questi lidi fossero in realtà, lo si sarebbe scoperto nel corso degli anni novanta, con una stagione di rapide privatizzazioni che consegnarono settori strategici dello Stato a élites ristrettissime di persone con legami inquietanti.

A Gorbaciov, già in carica quando scoppiò il reattore nucleare a Chernobyl e le autorità sovietiche diedero in ritardo l’allarme al mondo, si rimprovera di avere creato le condizioni dello scioglimento del regime comunista senza però che allo stesso sia seguita una vera modernizzazione degli apparati pubblici ed economici in chiave riformista e socialdemocratica. Egli, e per questo venne insignito del premio Nobel per la Pace, ebbe il merito di avere impedito che la fine del fragile impero del terrore (o del male, come lo definì l’amico Reagan) potesse coincidere con uno spargimento di sangue: la disgregazione della vecchia URSS avvenne con una serie di atti di autodeterminazione che portarono alla implosione del regime preesistente. Tuttavia, e ce ne stiamo accorgendo adesso drammaticamente, l’avere sotterrato l’unione sovietica e il socialismo reale moscovita non coincise con lo spegnimento completo del sovietismo e delle ambizioni imperialiste coltivate da gran parte dei ceti dirigenti di ogni colore e accettate (o subite) da ampi settori sociali.

Né l’Occidente prestò molta attenzione ai rischi di involuzione del quadro politico istituzionale interno alla federazione russa, occupandosi anzitutto di allacciare con essa rapporti utili all’approvvigionamento economico di fondamentali materie prime e alla delocalizzazione di alcune realtà industriali, finanziarie e commerciali utili a presidiare la città di Mosca e i poli urbani più importanti della Russia. Troppo poco per costruire quella casa comune europea che Gorbaciov, già destituito da Eltsin, indicava come traguardo auspicabile del percorso riformatore che aveva avviato ma non completato, e che oggi non si trova più in alcuna agenda.

Dir. politico Alessandro ZORGNIOTTI