Gustavo Zagrebelsky: la libertà di parola al tempo dell’odio

0
5

Premessa del professore. «Lei lo capisce che ragioniamo sul filo del rasoio?». Mi sento come uno studente. «Direi di sì». Non possiamo più dare per scontata la libertà di parola, presupposto ovvio di qualunque convivenza civile basata sulla libertà, la tolleranza e la democrazia.

«Esatto. Allora la prima domanda me la faccio da solo, mettendomi nell’ottica del giurista. Cioè, di colui che evita di fare di tutta l’erba un fascio».

Allude?
«Mi lasci proseguire. Sa quali distinzioni fa la Costituzione su questi temi?».

Quali?
«La prima riguarda i luoghi in cui ci si esprime. Esistono luoghi privati, per esempio casa nostra o la sede di un circolo a cui accedono i soci. Lì abbiamo il diritto di ammettere e di escludere chi vogliamo. Ovvio, no?».

Ovvio.
«Poi ci sono i luoghi privati aperti al pubblico: ad esempio una sala conferenze o un cinematografo, dove può accedere chiunque. I gestori invitano chi vogliono a parlare, ma il pubblico ha il diritto di dire la sua. E anche di contestare, fischiare, applaudire. In altri termini, di reagire. Nei luoghi aperti al pubblico è necessario garantire il diritto di tutti. Dell’oratore in cerca di consenso e di chi dissente assistendo all’incontro».

Chi li garantisce questi diritti?
«Normalmente il moderatore. Ma nemmeno l’oratore ha il diritto di sottrarsi in un modo o in un altro, alle critiche: tutti hanno il diritto di parola».

Perdoni, professore. E le Università?
«Ci stavo arrivando. Terza distinzione: i luoghi amministrati dalla pubblica autorità. Le Università sono tra questi. Fanno parte della pubblica amministrazione».

E che cosa significa?
«Che hanno un onere particolare, l’imparzialità. Lì si deve pensare, ragionare, non fare propaganda».

Esclude che qualcuno faccia propaganda convinto di spiegare?
«La distinzione è semplice. Chi spiega deve rappresentare tutte le posizioni e poi, su questa base anche dire la sua. Ma lo ripeto: è chiaro che camminiamo sul filo del rasoio».

Che cosa succede se un gruppo filopalestinese interrompe una lezione, come è successo al Politecnico di Torino?
«Se c’è interruzione, si viola la libertà di parola. Se c’è interlocuzione, anche al calor bianco, c’è il trionfo della parola».

E se a domanda diretta sull’esercito di Netanyahu, fatta ad un professore israeliano, la risposta è: sono i soldati più morali che conosca, si ha torto o ragione?
«Torto».

Perché?
«Perché la risposta giusta sarebbe: non siamo qui per sparare menzogne contraddette dalla realtà che solo i ciechi non vedono, ma per discutere di tale realtà. La questione della vocazione della scuola è antica. In Francia, quando la scuola venne sottratta alle autorità ecclesiastiche per consegnarla allo Stato, si aprì un confronto tra Condorcet e Tallyerand».

L’epoca dei lumi. Che cosa sosteneva Condorcet?
«Che la scuola non doveva inculcare, ma limitarsi ad istruire, a trasmettere conoscenza, perché l’educazione come agente di manipolazione morale avrebbe leso la libertà e l’autodeterminazione dei giovani e aperto un conflitto con le famiglie, addirittura distruggendo la felicità domestica. Mettendo i figli contro i padri».

E Talleyrand?
«Il contrario. Che lo Stato è il necessario dispensatore della morale civica. Lo Stato etico deve avere i propri catechismi per formare la gioventù. Le rivoluzioni spesso richiedono una morale conforme».

Regimi.
«Appunto».

Piuttosto di moda, direi.
«È lo spirito dei tempi».

Professore, sintetizzo il discorso all’Onu di Netanyahu: non c’è differenza tra Hamas e i palestinesi. Dunque, li sterminiamo tutti, donne, vecchi, bambini, perché hanno festeggiato il 7 ottobre. Giusto?
«Per uno come me è una domanda irricevibile. Io sono dostoevskjiano».

Ovvero?
«Ha presente i Fratelli Karamazov? Ivan dice ad Alyosha: in nome della felicità saresti disposto a creare un dolore, anche solo a fare scendere una lacrimuccia ad un innocente? La risposta di Alyosha mi pare chiara. La voce di Hind Rajab da Gaza, nello sconvolgente film che porta il suo nome, mi pare l’argomento definitivo».

La sua risposta?
«Chiarissima. Io dico di no».

Salvare molti condannando uno solo non è giusto?
«Le opere umane, anche non belliche, hanno spesso le loro vittime, purtroppo. Quanti morti, le piramidi? Quanti, la galleria del Frejus, per esempio. Facendo il bene, spesso si fa il male. Ma, quelle, non erano morti intenzionali. Tanto più alto è il bene conclamato, addirittura la felicità del genere umano, tanto più diventa accettabile l’infelicità degli individui. Dalla lacrimuccia al bagno di sangue, il Terrore in Francia, lo sterminio dei kulaki in Russia, ad esempio».

La Palestina è in guerra?
«Non so. Lei che dice? Come definirebbe quello che sta accadendo? Certo un’esplosione di violenza, di quelle viste poche volte. Ma la guerra di cui parla il diritto internazionale e umanitario è un’altra cosa. Per questo, il richiamo al diritto bellico mi pare piuttosto velleitario. Inter armas silent leges».

Parliamo del caso Charlie Kirk? L’hanno ucciso con una pallottola sulla quale c’era scritto Bella Ciao.
«Lei crede che sia un riferimento “alla sinistra” o alla resistenza italiana? Penserei, piuttosto, al “ciaone” del nostro linguaggio politico degradato».

Basta un pazzo per stravolgere il senso di ogni cosa?
«Dipende. Se abbiamo la testa a posto non cadremo nella trappola dei pazzi»