Una di quelle che dovrebbero cambiarti la vita in meglio, restituirti movimento, sollievo, libertà. E invece no. Questa non è andata bene. E da otto mesi mi ha costretto su una sedia a rotelle.
Lo dico senza giri di parole: ho attraversato momenti di grande depressione. Ho guardato in faccia il pensiero più oscuro, quello che non vorresti mai ammettere nemmeno a te stesso. Ho pensato di farla finita. Perché non ero indipendente. Perché non riuscivo più a riconoscermi. Perché mi sentivo un peso — inutile, fragile, spezzato. Inutile agli altri, certo. Ma soprattutto inutile a me stesso. La mia energia, quella che ha sempre fatto parte di me, si era diluita. Si era dispersa. Sembrava evaporata.
È stata dura. Dura davvero. Poi, un giorno come un altro, ho pensato: “C’è chi sta peggio.” E non per negare la mia sofferenza, ma per ricordare a me stesso che la mia vita è stata piena, profondissima, rumorosa. Ho realizzato tanti sogni. Ho conosciuto teatri pieni, set incandescenti, amori persi e ritrovati, risate che fanno tremare il diaframma. La vita mi ha dato tanto.
E può ancora darmi tanto. Per cui no, non devo lamentarmi. E soprattutto: non voglio lamentarmi. Non voglio cedere tutto al dolore, non voglio consegnargli l’ultima parola. Ora sto facendo delle terapie. Sto provando a riprendermi. A piccoli passi. Non sono autonomo, non ancora. Però lavoro, provo in teatro, vado ai concerti. Guardo il mondo da una prospettiva diversa, a mezz’altezza.
E va bene così. Perché, nonostante tutto, sono ancora qui”.
Alessandro Haber


