I conflitti d’interessi degli eletti “senza legge”: e non è un caso

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Le cronache della politica italiana pongono, sempre con maggiore evidenza, la necessità di regolare i potenziali conflitti di interessi dei membri del Parlamento e del governo.

La vicenda più nota, al riguardo, è quella di Matteo Renzi, il quale ha ricevuto, da senatore in carica, numerose consulenze anche da parte di Stati esteri. Lo stesso Renzi è titolare di una società che realizza servizi, analisi e ricerche per conto delle imprese e, stando alle dichiarazioni rese in Senato, le sue attività gli hanno fruttato oltre 2 milioni di euro. La vicenda è emblematica del fatto che in Italia manca una normativa sulle attività professionali dei parlamentari e fa emergere come spesso anche questi svolgano vere e proprie attività di lobbying conto terzi.

La Costituzione di per sé vieterebbe tutto ciò: leggendo in modo coordinato gli articoli 67, 69 e 98 emerge che il parlamentare deve essere al servizio esclusivo della Nazione, rappresentandola in modo unitario ed esercitando le sue funzioni senza vincolo di mandato, ricevendo, per ciò, una specifica indennità.

Durante i lavori dell’Assemblea costituente, a dire il vero, Piero Calamandrei aveva proposto di introdurre una norma specifica per vietare ai parlamentari di assumere altri incarichi. Calamandrei, infatti, riconosceva con franchezza che “l’opinione pubblica non ha, in questo momento, molta simpatia e molta fiducia per i deputati, essendoci la convinzione diffusa che molte volte l’esercizio del mandato parlamentare possa servire a mascherare il soddisfacimento di interessi personali e diventi un affare, una professione, un mestiere”. La norma non venne introdotta probabilmente perché i costituenti vivevano ancora in un mondo in cui l’onore e la dignità personale non erano in vendita.

Il principio costituzionale comunque è vigente, ma non ha trovato attuazione in una specifica legge, ed oggi è sotto gli occhi di tutti il fatto che i parlamentari – in carica ed ex – possono tranquillamente rappresentare gruppi di pressione e finanche Stati esteri nella totale indifferenza, salvo poi scandalizzarci per quanto avviene a Bruxelles con il “Qatargate”.

Nelle altre democrazie stabilizzate il mandato parlamentare è espressamente incompatibile con altre attività professionali.

Negli Stati Uniti ai parlamentari è vietato ricevere qualsiasi tipo di utilità, anche non economica, da parte di Stati esteri e i consueti regali di cortesia devono essere preventivamente autorizzati dalla Commissione etica del Congresso. In Francia i membri delle Camere devono rendere note tutte le attività professionali svolte nei cinque anni antecedenti il mandato, con l’indicazione dei compensi ricevuti e da chi, avendo l’obbligo di astenersi da ogni dibattito potenzialmente correlato ai precedenti incarichi. In Gran Bretagna è vietato per i deputati fornire una qualsiasi consulenza retribuita oppure prestare servizi di strategia aziendale. Ugualmente in Germania i parlamentari non possono svolgere attività di consulenza retribuite e non possono ricevere rimborsi spese – ad esempio per partecipare ad una conferenza – per un valore annuo complessivo al 10% dell’indennità parlamentare mensile. Su tale limitazione si è perfino espresso il Tribunale costituzionale tedesco riconoscendo, nel 2007, la legittimità di tale previsione, dato che il mandato parlamentare deve essere posto al centro dell’attività di ciascun parlamentare e deve essere svolto a tempo pieno.

In tutte queste democrazie è vietato ai parlamentari in carica svolgere consulenze nei confronti di imprese che potrebbero avere una qualsiasi relazione, anche non economica, con lo Stato e il suo apparato. Ovunque esistono specifiche autorità indipendenti chiamate a verificare il rispetto di queste disposizioni la cui violazione può comportare anche anni di carcere (come in Francia dove il codice penale disciplina la “difesa illegale di interessi” punita con la reclusione fino a 5 anni).

(DI PIER LUIGI PETRILLO – ilfattoquotidiano.it)